inserito 03/10/2008

Don Chambers & Goat
Zebulon
[
Warm Electronic
2008]



Si definisce un "surrealist reporter", calandosi nei panni delle voci più oscure dell'America, scrivendo dalla loro prospettiva e raccontando storie che sono intrise del mistero tipico della letteratura sudista e dei suoi luoghi topici. Sullo stesso tortuoso percorso, con quell'inevitabile senso del gotico, che hanno affrontato in questi anni band quali Sixteen Horsepower e Handsome Family, ma con un accento più smaccatamente da folksinger ed un suono che non disegna di sporcarsi le mani nel fango del southern rock, Don Chambers è un piccolo segreto della scena di Athens (in giro dal '91 come leader dei Vaudeville), che ha tutto il diritto di prendersi il suo momento di gloria. Zebulon arriva infatti sulla scia di Don Chambers and Goat (2005) e I Got the Recollection of the Blood of the Lamb (2007), dischi che hanno suscitato qualche pettegolezzo in sede locale, ma non hanno trovato platee e attenzioni oltre i confini del Dirty South.

Oggi che alla produzione da una mano il ben più famoso collega Patterson Hood (Drive By Truckers), c'è la possibilità che su Chambers si accendano i riflettori: noi stessi ci accodiamo volentieri, scoperchiando un songwriter dalla voce al catrame, un Tom Waits perso lungo le rive del Mississippi, ma soprattutto uno scrittore vivido e intenso che infila nei suoi versi narrazioni dalla strada. Il viaggio come elemento di scoperta, di esperienza, ma anche di timori e incertezze, magari sconfitte: Zebulon è colmo di personaggi, luoghi (a partire dall'omonima cittadina che da il titolo al disco), dettagli di un'America fuori quadro. Curioso che queste canzoni siano state metabolizzate e persino perfezionate a Berlino, dove Chambers ha risieduto per un breve periodo prima di fare ritorno nella sua terra: eppure le atmosfere plumbee e mittleuropee di Ghostly Leg e della splendida Send me No Angels, le stesse che spesso hanno impastato la produzione di David Edwards (Woven Hand, 16 Horsepower) sembrano proprio avere trovato una sorta di compromesso.

Dal canto loro i Goat - l'ottimo Patrick Hargon alle chitarre, Matt “Pistol” Stoessel alle pedal steel, Bandon McDearis alla batteria e percussioni, Fritz Gibson al basso - dosano sporcizia rock e effuzioni folk finendo spesso per adattarsi come un guanto alla vocalità di Chambers, addolcita dal contraltare femminile della collega di etichetta Liz Durret: è lei ad ammansire ulteriormente le morbide effusioni country di Highwater (con una splendida accoppiata di steel e pianoforte a comandare la melodia) e quella più folkie di Friar's Lantern. Insieme alla chiusura, impalpabile e quasi spirituale di Bind my Wounds, costituiscono l'angolo di paradiso di Zebulon, il volto angelico che resta avvolto dalle fiamme minacciose di tutto ciò che lo circonda, ballate nere e pioviginose che esaltano l'aria da precicatore di Don Chambers. Conjuring a Dead Rabbit, ad esempio, tira in ballo Lewis Carroll e siamo già dentro l'America più ancestrale, anche se il piatto forte incombe con gli stridori elettrici e il banjo pestifero di Open the Gates, in cui la filosofia rock di Patterson Hood deve avere giocato un ruolo non indifferente. Le è gemella Fire in the Kitchen, che sarebbe forse piaciuta al Tom Waits di Mule Variations. Pain The Moon è un canto solitario e funereo che abbraccia idealmente la successiva I Can Waltz, walzer sinistro e dall'eco lontana ripreso nel finale con This I Know, altra prova di country noir in cui la tradizione viene evocata fra gli spettri più inquietanti.

Zebulon non è certo un disco di sconvolgente rottura: per queste strade infatti sono passate molte, troppe facce in tempi recenti. E tuttavia è davvero difficile trovarvi un minimo difetto di personalità: Don Chambers ha una voce riconoscibile, che si bagna in fiume di tradizioni sudiste da cui attingere senza timori.
(Fabio Cerbone)

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