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Don
Chambers & Goat
Zebulon
[Warm
Electronic 2008]
 
Si definisce un "surrealist reporter", calandosi nei panni delle
voci più oscure dell'America, scrivendo dalla loro prospettiva
e raccontando storie che sono intrise del mistero tipico della letteratura
sudista e dei suoi luoghi topici. Sullo stesso tortuoso percorso, con
quell'inevitabile senso del gotico, che hanno affrontato in questi anni
band quali Sixteen Horsepower e Handsome Family, ma con un accento più
smaccatamente da folksinger ed un suono che non disegna di sporcarsi le
mani nel fango del southern rock, Don Chambers è un piccolo
segreto della scena di Athens (in giro dal '91 come leader dei Vaudeville),
che ha tutto il diritto di prendersi il suo momento di gloria. Zebulon
arriva infatti sulla scia di Don Chambers and Goat (2005) e I Got the
Recollection of the Blood of the Lamb (2007), dischi che hanno suscitato
qualche pettegolezzo in sede locale, ma non hanno trovato platee e attenzioni
oltre i confini del Dirty South.
Oggi che alla produzione da una mano il ben più famoso collega
Patterson Hood (Drive By Truckers), c'è la possibilità
che su Chambers si accendano i riflettori: noi stessi ci accodiamo volentieri,
scoperchiando un songwriter dalla voce al catrame, un Tom Waits perso
lungo le rive del Mississippi, ma soprattutto uno scrittore vivido e intenso
che infila nei suoi versi narrazioni dalla strada. Il viaggio come elemento
di scoperta, di esperienza, ma anche di timori e incertezze, magari sconfitte:
Zebulon è colmo di personaggi, luoghi (a partire dall'omonima cittadina
che da il titolo al disco), dettagli di un'America fuori quadro. Curioso
che queste canzoni siano state metabolizzate e persino perfezionate a
Berlino, dove Chambers ha risieduto per un breve periodo prima di fare
ritorno nella sua terra: eppure le atmosfere plumbee e mittleuropee di
Ghostly Leg e della splendida Send
me No Angels, le stesse che spesso hanno impastato la produzione
di David Edwards (Woven Hand, 16 Horsepower) sembrano proprio avere trovato
una sorta di compromesso.
Dal canto loro i Goat - l'ottimo Patrick Hargon alle chitarre,
Matt “Pistol” Stoessel alle pedal steel, Bandon McDearis alla batteria
e percussioni, Fritz Gibson al basso - dosano sporcizia rock e effuzioni
folk finendo spesso per adattarsi come un guanto alla vocalità
di Chambers, addolcita dal contraltare femminile della collega di etichetta
Liz Durret: è lei ad ammansire ulteriormente le morbide effusioni
country di Highwater (con una splendida
accoppiata di steel e pianoforte a comandare la melodia) e quella più
folkie di Friar's Lantern. Insieme
alla chiusura, impalpabile e quasi spirituale di Bind
my Wounds, costituiscono l'angolo di paradiso di Zebulon, il
volto angelico che resta avvolto dalle fiamme minacciose di tutto ciò
che lo circonda, ballate nere e pioviginose che esaltano l'aria da precicatore
di Don Chambers. Conjuring a Dead Rabbit,
ad esempio, tira in ballo Lewis Carroll e siamo già dentro l'America
più ancestrale, anche se il piatto forte incombe con gli stridori
elettrici e il banjo pestifero di Open the Gates,
in cui la filosofia rock di Patterson Hood deve avere giocato un ruolo
non indifferente. Le è gemella Fire in
the Kitchen, che sarebbe forse piaciuta al Tom Waits di Mule
Variations. Pain The Moon è
un canto solitario e funereo che abbraccia idealmente la successiva
I Can Waltz, walzer sinistro e dall'eco lontana ripreso nel
finale con This I Know, altra prova
di country noir in cui la tradizione viene evocata fra gli spettri più
inquietanti.
Zebulon non è certo un disco di sconvolgente rottura: per queste
strade infatti sono passate molte, troppe facce in tempi recenti. E tuttavia
è davvero difficile trovarvi un minimo difetto di personalità:
Don Chambers ha una voce riconoscibile, che si bagna in fiume di tradizioni
sudiste da cui attingere senza timori.
(Fabio Cerbone)
www.donchambersmusic.com
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