Kathleen
Edwards
Asking
for Flowers
[Zoe/
Rounder 2008]

Un leggero scarto o se preferite un impercettibile cambio di rotta nel
songwriting di Kathleen Edwards. Il clima più ovattato che caratterizza
gli undici episodi di Asking for Flowers è dischiuso dai
cinque minuti abbondanti di Buffalo,
una ballata sospesa, eterea, cadenzata dallo scorrere fluente di steel
e tastiere: è il segnale di un disco meno diretto nella sua esposizione,
capace ancora di alzare di tanto in tanto i pugni del rock'n'roll, eppure
concettualmente più personale, esposto alle intemperie dell'anima. Canzoni
che si dividono infatti tra fragili confessioni familiari, riottose e
persino ironiche prese di posizione su questioni amorose ma soprattutto,
novità assoluta o quasi, racconti in terza persona dove Kathleen Edwards
non ha paura di affrontare tematiche sociali, siano esse i fantasmi di
una guerra assurda, i cocci in frantumi di una nazione (il suo Canada)
o drammi che sfriorano la cronaca nera per assumere un significato metaforico
più profondo (l'agrodolce ballata pop di Alicia
Ross).
La pausa voluta di tre anni dall'ultimo celebrato Back
to Me è servita forse ad acuire e soprattutto affinare queste
sensibilità: felicemente svuotata dagli impegni on the road, contrassegnati
da tour intensi al fianco di grandi nomi della canzone americana (da Willie
Nelson a John Prine, da Aimee Mann ai My Morning Jacket), la Edwards si
è presa tutto il tempo dovuto per ripensare ai traguardi già raggiunti
e a quelli da conquistare. Asking for Flowers è la risposta
di una autrice sicura dei propri mezzi, tanto da delineare il suo album
più corposo in termini di contenuti e produzione. Mancano probabilmente
assi nella manica, cioè canzoni memorabili come in passato, ma
nella resa finale si tratta del classico esempio di un disco che trae
la sua forza nella visione d'insieme anziché dai singoli episodi. La presenza
massiccia dei tempi medi, di alcuni country rock lussuriosi che molte
colleghe non hanno ancora scovato nel loro songwbook (quello che è mancato
all'ultima Tift Merritt e fors'anche alla madrina di tutte, Lucinda Williams),
domina la scaletta: a partire dalla citata Buffalo passando per la title
track, per l'intensità emotiva di Run
e per un'ariosa e westcoastiana I Make the Dough,
You Get the Glory, per finire fra i delicati contorni acustici
di Sure as Shit (quando si dice parlare
chiaro) e Scared at Night.
La scelta di spezzare le session con diversi musicisti, passando dai favori
di un cast stellare formato dal sopraffino Greg Leisz, da Bob Glaub
e Benmont Tench (Heartbreakers) ai più familiari collaboratori
Jim Bryson e Colin Cripps (ottimo chitarrista e compagno della
stessa Edwards), non pare avere alterato minimamente i valori: ragione
in più per elogiare il ruolo di Jim Scott (Whiskeytown, Tom Petty,
Sheryl Crow) nelle vesti di produttore. Suo probabilmente il marchio cristallino
sulle chitarre e le bizze rock di The Cheapest
Key, passo stradaiolo e grande cuore elettrico che riporta
ad alcuni momenti del precedente Back to Me, così come impeccabili restano
le pennellate country rock da manuale in Oil
Man's War e la tensione abbagliante di Oh
Canada. Giunta al terzo capitolo di una progressiva crescita
artistica, Kathleen Edwards dimostra definitivamente di avere tutte le
carte in regola per imporsi come la migliore voce femminile dell'universo
Americana...che ad impossessarsi di questo scettro sia una ragazza canadese
è soltanto un dettaglio un po' beffardo.
(Fabio Cerbone)
www.kathleenedwards.com
www.myspace.com/kathleenedwards
|