 |
Ali
Eskandarian
Nothing to Say
[Wildflower/
Audioglobe 2008]
 
Qualcuno proverà a convincervi, e magari a distrarvi, sul fatto che il
tratto più significativo di Ali Eskandarian sia la sua biografia:
una vita errante, a suo modo "esotica", quella che ha portato un ragazzo
di origini iraniane, figlio di un militare cacciato dal regime dopo la
morte dell'Ayatollah Khomeini e rifugiato politico con l'intera famiglia
prima in Germania e poi negli Stati Uniti, in giro per il mondo. Certo,
notare i dettagli di questa storia ha un senso preciso, se non altro per
sottolineare come quella strana forma di melting pot da sempre
generata nel rock sia in grado soprattutto di fornire un senso di libertà
preciso a chiunque abbia voglia di confrontarsi con esso.
C'è ben altro però nella musica di Ali Eskandarian, a cominciare dal fatto
che lui - ragazzo americano a tutti gli effetti, è nato in Florida e cresciuto
a Dallas prima di finire a suonare nella coffee houses di New York - dell'antica
terra persiana ha soltanto un ricordo sfumato, che ritorna sottilmente
nelle salite improvvise della sua vibrante vocalità, in qualche esplicito
omaggio (il finale con Eastern City)
e in altre soluzioni interpretative che si mischiano al sostrato folk
di Notthing to Say. Un esordio che la newyorkese Wildflower
ripesca dalla più totale indipendenza (le registrazioni del disco risalgono
al 2006) per farne una delle più limpide raccolte di stagione, accodato
a quel rinnovato gusto "dylaniano" che in questo 2008 aveva già passato
al vaglio Pete Molinari. Rispetto al ragazzotto inglese, i capelli arruffati
e il volto inquieto di Ali Eskandarian sembrano sondare un terreno meno
ripiegato sul revival e attento semmai alle tonalità aspre del songwriting:
insomma una personalità persino più spiccata, in cui il folk rock serve
come base di partenza per mettere a nudo l'anima di un folksinger fragile
e rude al tempo stesso, a metà strada fra il suono rurale della generazione
Americana (Waking Up is Hard To Do)
e le spirali più ardite di un menestrello alla Tim Buckley (Nobody).
Conquista, in tutto questo gioco di rimandi, la semplicità disarmante
delle melodie, lo scandire scarno della chitarra acustica di Ali, intorno
alla quale però il bravissimo Rob Friedman (produttore del disco,
già al fianco dell'ex Del Fuegos Dan Zanes ) innesta deliziosi ricami
di lap steel, resonator, organo, pianoforte e accordion, impastando le
sonorità di queste ballate, così eterne e soffuse, con le tonalità di
una musica sinceramente old time. In tal senso esemplare è la melodia
di Memphis, storia guarda caso di
un vagabondo che cerca disperatamente di far rivivere la memoria della
sua città: riassume l'ingenua bellezza delle composizioni di Eskandarian,
che difficilmente potranno essere scambiate per una furbesca rapina dei
modelli di riferimento.
Questo assunto lo potremmo estendere all'intero Notyhing to Say: a meno
che abbiate un cuore di pietra, fareste meglio a lasciarvi avvolgere dalla
flessuosa e carezzevole melodia di All We Do,
dal crescendo di una tersa Black Tar Man,
forse la più sottilmente pop del disco, dalle scosse folk blues di una
spietata Government Meat che succhia
linfa vitale dal Sud e ancora dalla cruda dichiarazione contenuta in una
nervosa Johnny Goes to War. Quest'ultima
non sarà forse uno stralcio di poesia in musica, ma basterebbe quel War
Yeah urlato in maniera liberatoria a metà brano o meglio ancora lo
schiaffo di un verso quale "nineteen years old with 23 kills" per
testimoniare la scorza solida e robusta di Ali Eskandarian. Un inaspettato
incontro, una sorpresa da tenersi stretta.
(Fabio Cerbone)
www.myspace.com/alieskandarian
www.wildflowerrecords.com
|