inserito 21/07/2008

Micah P Hinson & The Red Empire Orchestra
Micah P Hinson & The Red Empire Orchestra
[
Full Time Hobby
 2008]



Una nuova casa discografica, l'ennesimo cambio di ragione sociale (dall'Opera Circuit siamo passati oggi alla Red Empire Orchestra), ma soprattutto un diverso sguardo alla vita: che Micah P Hinson abbia forse svoltato l'angolo e si sia finalmente aperto alle gioie dell'esistenza? Non esattamente, anche se le cronache mondane ci narrano persino di una proposta di matrimonio fatta alla sua amata nel bel mezzo di un concerto, lo scorso dicembre, manco si credesse una reincarnazione di Johnny Cash. Micah P Hinson and Red Empire Orchestra è in verità un disco di risorgenze e cadute, di aspirazioni gioiose e elucubrazioni dolorose, come sempre avvolto da una cappa di dolce malinconia in cui è facile lasciarsi in qualche modo cullare dal basso profondo di una voce che pare spuntare da un tempo indefinito e lontano.

Ormai il songwriter texano non può essere più considerato un ragazzino prodigio, un talento grezzo risorto da una notte buia fatta di abusi di droga, dolori fisici, tentativi di suicidio, così che il gioco del maudit non reggerebbe a lungo…d'altronde lo avevamo già sottolinetao in occasione dell'interlocutorio And The Opera Circuit. Gioca dunque a favore di questo terzo lavoro una disponiblità a spalancare il proprio animo verso la luce del futuro, alternando quel rimuginare dolente tipico del nostro con spiragli di salvezza: ne guadagna l'impianto generale - più omogeneo, dimesso e meno disposto alle intemperie - nonostante lo stupore meravigliato dell'esordio resti sempre di più un momento isolato, forse irripetibile. Condotto per mano dalla produzione parca di John Congleton (Black Mountain, Antony and the Johnsons), l'uomo che pare avere giocato, soltanto grazie ad una lettera, un ruolo essenziale nel ridestare l'animosità di Hinson, puntellato inoltre dalle partecipazioni di membri sparsi di Polyphonic Spree, The Paper Chase and The Drams, Micah P Hinson and Red Empire Orchestra implode e sottrae, usa un tappeto di morbidi archi nella suadente I Keep Havin' These Dreams salvo ridestarsi al suono asciutto del folk in When We Embraced, Throw The Stone e Wishing Well And The Willow Tree, una chitarra, un banjo, un fiddle in lontananza, abbracciando il cuore nero della tradizione.

L'inizio poi è una breve preghiera, Come Home Quickly Darlin', congiungendosi idealmente allo stile di un tempo: anche la successiva soffice cadenza di Tell Me It Ain't So, piano ed organo ad infarcire il canto, pare una coda lunga delle opere precedenti. Solo strada facendo il disco si rende più impalpabile, a tratti coraggioso nello sperimentare qualche insolita via (l'incrocio con i riverberi surf delle chitarre in You Will Find Me), altre volte più evanescente, calando di intensità e mordente nella chiusura con We Won't Have To Be Lonesome e Dyin' Alone, titoli che ancora una volta sembrano abbandonarsi allo struggimento un po' abusato dell'autore. I'm not afraid of the suffering canta il nostro Micah: non abbiamo motivi di dubitarne.
(Fabio Cerbone)

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