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Jamey
Johnson
That Lonesome Song
[Mercury/
Universal 2008]
 
Un viaggio di andata e ritorno per l'inferno: le tonalità brune, autunnali
della copertina, il volto scuro di Jamey Johnson sono la fotografia
dell'ultimo dei ribelli (anche se, a ben vedere, si tratta di un ex-marine...)
e della sua vita tribolata, appena arrivato a Nashville per rimettere
la questione in chiaro. Un contratto stracciato dalla vecchia casa discografica,
un divorzio sulle spalle, qualche birra di troppo e un ritiro forzato
lontano dai riflettori. Se a questo punto avete già intuito dove andremo
a parare, su quali coordinate artistiche si muoverà l'intero That
Lonesome Song, cambiate aria in fretta, perché quello che vi aspetta
sarà esattemente un cammino fra le stade perdute e solitarie di un moderno
outlaw, discepolo di quella strana specie che, a partire dagli anni '70,
continua ostinatamente a pensare che Nashville possa essere messa a soqquadro
con un dose di autenticità e schiettezza.
Di ciò parlano in fondo i quattordici capitoli di questo romanzo in bianco
e nero: un rischioso clichè che si trasforma invece in un purissimo distillato
di ballate country ormbrose figlie legittime di Waylon Jennings (d'altronde
Jamey Johnson ripesca Dreaming my Dreams
e la commovente The Door is Always Open dal
suo catalogo), di David Allan Coe, delle bottiglie consumate e dei sogni
infranti di un manipolo di honky tonk heroes. Ne è perfattemente consapevole
anche Jamey johnson, voce baritonale e incavata come si addice al personaggio,
che nella conclusiva Between Jennings and Jones
mette una pietra sopra ad ogni possibile rimostranza: vengo da quella
tradizione sembra voler dire, se vi sta bene saltate a bordo, altrimenti
ognuno per la sua strada. That Lonesome Song alza le spalle
e si fa forza proprio grazie a questo senso di appartenenza, un affetto
dichiarato che si dispiega in un sound spartano e denso al tempo stesso,
in una onnipresente pedal steel (Eddie Long) che sembra liberare spazi
infiniti, aprire ogni volta le danze, lasciando poi libero il campo alle
chitarre (ce ne sono parecchie ma mai invadenti, nella mani di Wayd Battle,
Scott Welch e dello stesso Johnson) e al pianoforte (Jim "Moose"
Brown).
Delineano nell'insieme un country rock di un romaticismo fuori tempo massimo,
neppure così distante dal gusto mainstream (le canzoni di Johnson sono
finite nelle mani di Trace Adkins e George Strait), ciò nonostante troppo
genuino per confondersi con la pacottiglia di "trashville".
Basterebbero i versi di High Cost of Living,
un western moderno in piena regola: "I had a job and a piece of
land and my sweet wife was my best friend but i traded that for cocaine
and a whore"…ci siamo capiti insomma. E quello che resta, magari virato
verso un certo sentimentalismo e un'intimità da bancone del bar (come
ogni vecchio country singer insegnerebbe), non è da meno: Jamey Johnson
si è circondato dei collaboratori migliori e più rispettosi, così la vitalità
del disco risiede proprio nella compostezza degli arrangiamenti, nelle
cadenze quasi sempre rallentate di Angel,
Mary Go Round e della nostalgica
The Last Cowboy (..."and ever since Waylon, I can't find
no one t buy into sad country song"), nei tempi medi di rustici
honky tonk quali Place Out on the Ocean,
raramente spezzati da un piglio southern (l'appiccicosa ed elettrica Mowin'
Down the Roses).
Certo, a volte capita che Jamey Johnson voglia fare lo spaccone a tutti
i costi (Women) o che i suoi rimpianti
diventino una cartolina da Old America (la pur commovente storia famigliare
messa in scena da In Color), ma è
il prezzo da pagare con un personaggio simile: That Lonesome Song ha la
faccia sporca di un songwriter fuorilegge e l'anima pulita di un country
rock sincero.
(Fabio Cerbone)
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www.jerkincrocus.com
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