inserito il 02/05/2008

Matthew Ryan
Matthew Ryan Vs. The Silver State
[One Little Indian/ Good Fellas 2008]



A sentirne l'artefice, le undici canzoni di Matthew Ryan Vs. The Silver State avrebbero preso vita in un garage dell'Idaho, durante un'umida e bollente stagione estiva targata 2006. Nel loro svolgimento, tuttavia, ancora una volta non c'è nulla di luminoso o tipicamente estivo, non un raggio di sole utile a squarciare la cappa di tensione, rimorsi, dubbi oscuri e cupe incertezze che da sempre nutre la poetica di Matthew Ryan. Eppure, nel complesso, l'atmosfera e le suggestioni di MRVSS risultano meno rabbuiate e tormentose rispetto a quelle del predecessore From A Late Night High Rise, sfogo senza ritorno (né redenzione o conforto) di una disperata spirale in cui si inserivano anche la morte di un caro amico e la condanna definitiva a trent'anni di carcere per il fratello maggiore dell'artista.

Diciamo allora che questo nuovo album rappresenta una specie di summa del rock'n'roll, e di un'elaborazione basilare dello stesso, così come lo intende Matty Ryan, ovvero una promessa di fuga, un canto rabbioso sulla resistenza dell'animo umano, una cura per il dolore che il nostro tenta di somministrarci e (auto)somministrarsi ormai dai tempi gloriosi di May Day ('97) con esiti forse talvolta un po' incerti e nonostante tutto mai meno che autentici, sofferti, crudamente onesti. MRVSS è dunque uno "straight r'n'r record" alla maniera del suo autore, quindi sudicio e romantico al tempo stesso, fragoroso e sussurrato, colto ed elementare, capace di passare in un battito di ciglia dallo strazio acustico della sanguinante Jane, I Still Feel The Same alla sprezzante sporcizia sonora di una Drunk And Disappointed che non può non ricordare gli amati Replacements, dalle bordate di slide e feedback assicurate da Doug Lancio ai gemiti del pianoforte di Brian Bequette fino al drumming pestone del favoloso Steve Latanation.

Parrà una piccola rivoluzione a chi aveva storto il naso di fronte alle parentesi più audaci degli ultimi album, rispetto ai quali recupera una dimensione più tradizionalmente rock, e si giocherà magari l'entusiasmo di chi auspicava una sterzata ancor più netta verso il connubio tra sperimentazioni e classicità di scrittura: non potrà però non togliere il fiato a chiunque, compreso chi vi scrive, apprezzi senza riserve l'attitudine di un musicista che, in mezzo agli inevitabili scossoni e alle comprensibili cadute di tono, non ha mai rinunciato, disco dopo disco, a mettere in gioco tutto se stesso e il proprio universo interiore con sincerità disarmante. Non tutto è allo stesso livello, certo, e dopo una partenza fulminante il disco tende a sbandare in qualche ripetizione. Nondimeno, per tessere gli elogi ed enunciare le virtù di It Could've Been Worse (devastante ritratto di un'adolescenza solitaria che potrebbe essere quella dello stesso Ryan), Hold On Firefly (una stupenda perifrasi dei Wallflowers più fiammeggianti) o American Dirt (fulminante esplosione elettrica tra punk'n'roll e pennellate iperrealiste di lirismo urbano) non basterebbero giornate intere. Il capolavoro, infine, inaugura l'intera parata, si ispira a un componimento del poeta inglese Wilfred Owen e sotto il titolo di Dulce Et Decorum Est nasconde un superbo roots-rock dove si fondono l'epica virile di Bruce Springsteen e la passione irlandese dei Waterboys di Fisherman's Blues ('88). "Well, you know / I think / I am / Heroic in a failing way / For some of us it goes that way", canta Matthew Ryan, ed è al suo (e al nostro) mondo di sogni, speranze e sconfitte che si rivolge, al solito con l'impeto e il sentimento che gli conosciamo.
(Gianfranco Callieri)

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