Matthew
Ryan
Matthew
Ryan Vs. The Silver State
[One
Little Indian/ Good Fellas 2008]

A sentirne l'artefice, le undici canzoni di Matthew Ryan Vs. The
Silver State avrebbero preso vita in un garage dell'Idaho, durante
un'umida e bollente stagione estiva targata 2006. Nel loro svolgimento,
tuttavia, ancora una volta non c'è nulla di luminoso o tipicamente estivo,
non un raggio di sole utile a squarciare la cappa di tensione, rimorsi,
dubbi oscuri e cupe incertezze che da sempre nutre la poetica di Matthew
Ryan. Eppure, nel complesso, l'atmosfera e le suggestioni di MRVSS
risultano meno rabbuiate e tormentose rispetto a quelle del predecessore
From
A Late Night High Rise, sfogo senza ritorno (né redenzione
o conforto) di una disperata spirale in cui si inserivano anche la morte
di un caro amico e la condanna definitiva a trent'anni di carcere per
il fratello maggiore dell'artista.
Diciamo allora che questo nuovo album rappresenta una specie di summa
del rock'n'roll, e di un'elaborazione basilare dello stesso, così come
lo intende Matty Ryan, ovvero una promessa di fuga, un canto rabbioso
sulla resistenza dell'animo umano, una cura per il dolore che il nostro
tenta di somministrarci e (auto)somministrarsi ormai dai tempi gloriosi
di May Day ('97) con esiti forse talvolta un po' incerti e nonostante
tutto mai meno che autentici, sofferti, crudamente onesti. MRVSS è dunque
uno "straight r'n'r record" alla maniera del suo autore, quindi sudicio
e romantico al tempo stesso, fragoroso e sussurrato, colto ed elementare,
capace di passare in un battito di ciglia dallo strazio acustico della
sanguinante Jane, I Still Feel The Same
alla sprezzante sporcizia sonora di una Drunk
And Disappointed che non può non ricordare gli amati Replacements,
dalle bordate di slide e feedback assicurate da Doug Lancio ai
gemiti del pianoforte di Brian Bequette fino al drumming pestone
del favoloso Steve Latanation.
Parrà una piccola rivoluzione a chi aveva storto il naso di fronte alle
parentesi più audaci degli ultimi album, rispetto ai quali recupera una
dimensione più tradizionalmente rock, e si giocherà magari l'entusiasmo
di chi auspicava una sterzata ancor più netta verso il connubio tra sperimentazioni
e classicità di scrittura: non potrà però non togliere il fiato a chiunque,
compreso chi vi scrive, apprezzi senza riserve l'attitudine di un musicista
che, in mezzo agli inevitabili scossoni e alle comprensibili cadute di
tono, non ha mai rinunciato, disco dopo disco, a mettere in gioco tutto
se stesso e il proprio universo interiore con sincerità disarmante. Non
tutto è allo stesso livello, certo, e dopo una partenza fulminante il
disco tende a sbandare in qualche ripetizione. Nondimeno, per tessere
gli elogi ed enunciare le virtù di It Could've
Been Worse (devastante ritratto di un'adolescenza solitaria
che potrebbe essere quella dello stesso Ryan), Hold
On Firefly (una stupenda perifrasi dei Wallflowers più fiammeggianti)
o American Dirt (fulminante esplosione
elettrica tra punk'n'roll e pennellate iperrealiste di lirismo urbano)
non basterebbero giornate intere. Il capolavoro, infine, inaugura l'intera
parata, si ispira a un componimento del poeta inglese Wilfred Owen e sotto
il titolo di Dulce Et Decorum Est nasconde
un superbo roots-rock dove si fondono l'epica virile di Bruce Springsteen
e la passione irlandese dei Waterboys di Fisherman's Blues ('88). "Well,
you know / I think / I am / Heroic in a failing way / For some of us it
goes that way", canta Matthew Ryan, ed è al suo (e al nostro) mondo
di sogni, speranze e sconfitte che si rivolge, al solito con l'impeto
e il sentimento che gli conosciamo.
(Gianfranco Callieri)
www.matthewryanonline.com
www.myspace.com/matthewryan
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