Con il libero (più o meno) accesso alla musica, sembra che l'antico giochino
del saliscendi dal piedistallo abbia subito un'accellerazione, per cui
ormai uno dei luoghi comuni per eccellenza del rock'n'roll ("i primi dischi
erano meglio") è diventato una specie di dogma. E' anche vero, almeno
nel caso di David Gray: A Century Ends e Flesh proponevano un songwriter
straordinario che nei dischi successivi faticava a reggere un difficile
equilibrio (il tormentato Sell, Sell, Sell), s'inventava un improbabile
successo internazionale (White Ladder) e poi cercava di mantenersi, tra
alti e bassi, ad uno stadio più che dignitoso. Questo però non basta ad
archiviare prematuramente il suo nome o a trattare con sufficienza gli
ultimi passi solo perché hanno un tocco di raffinatezza sconosciuto all'origine
e qualche mezzo in più del giovane furioso con il mondo che cantava di
apocalisse con le stesse visioni del Dylan del 1962 e l'energia dei Clash
di quindici anni dopo.
C'è un tempo per ogni cosa e Draw The Line ci riporta un
David Gray riconciliato con i propri punti di riferimento (Van Morrison
su tutti), essenziale e asciutto nelle sonorità (ben divise tra pianoforte
e chitarre) e negli arrangiamenti (la produzione è avvenuta nel
suo studio personale, The Church, in North London) e con una (sempre)
pregevole forma vocale. L'impostazione con sui si presenta Draw The Line,
quella forma di ballata che si intravede subito attraverso Fugitive,
non cambia nelle undici canzoni, se non nelle sfumature. Più soffusa nelle
chitarre di Nemesis, più ariosa nel
pianoforte di Jackdaw (forse la canzone
migliore, dove il tributo a Van Morrison è evidentissimo), più lirica
nella pensosa Kathleen (ricamata da
uno splendido pianoforte), più brillante (e pop) in Breathe
e poi, infine, molto ambiziosa in Full Steam
che comincia con un'autunnale introduzione folkie e si gonfia come una
corale nel concludersi.
Per cui, okay, "i primi dischi erano meglio", ma la vita continua e anche
se Draw The Line non è il capolavoro che ancora manca a David Gray (questo,
sì, è un luogo comune che ha un fondo di verità) si tratta pur sempre
di un lavoro onesto, senza trucchi o fuochi d'artificio, che s'insinua,
ascolto dopo ascolto, con grazia e anche con una certa eleganza. Sarà
anche il riflesso dell'equilibrio, se non proprio di una ritrovata serenità,
di David Gray che alla fine Draw The Line convince più che per l'impatto
e/o le scosse per una piacevole assuefazione. A volte, può bastare. (Marco Denti)
* Il disco è proposto anche in una versione deluxe con un bonus
cd di otto brani tratti da un'esibizione alla Camden Roundhouse