Gregory
Alan Isakov
This Empty Northern Hemisphere
[Gregory Alan Isakov 2009]
Gregory Alan Isakov è un vero figlio del nostro tempo, un prodotto
di un'era ben precisa e definita, un vero e proprio clichè del cantautore anni
2000 per dirla tutta. Vale a dire un artista low-profile, che canta sussurrando
e suona prettamente acustico, rigorosamente con batteristi dotati di spazzole
e con nessuna velleità da big drum sound, intimista e depresso per vocazione e
scelta artistica, con il DNA nato nella musica americana ma l'atteggiamento dimesso
ereditato dal mondo degli indie-rocker (per sembrare moderni dovremmo forse parlare
del mondo degli "emo", ma un po' ci vergogniamo a farlo…), che ascolta Morrissey
mentre pensa a Jim Croce. Insomma, Gregory Alan Isakov è un emulo fatto e finito
di Ryan Adams, lo avrete capito, e non di quello più strafottente ed estremo che
gioca a provocare per pura isteria, quanto quello intimamente dimesso dei due
Love Is Hell o di 29. Basterebbe questo per liquidare questo ragazzo nato in Sud
Africa come un clone senza troppo futuro, e i tre misconosciuti dischi licenziati
dal 2003 al 2007 ne erano anche un po' la prova.
Ma This Empty
Northern Hemisphere, quarto album che si atteggia con eleganza da bohemien
fin dal titolo e dalla copertina, è uno di quei classici casi in cui la copia
d'autore diventa opera di valore. Perché se è vero che dal punto di vista delle
soluzioni musicali e vocali Isakov non s'inventa nulla, la sua auto-produzione
è più che buona, e l'utilizzo degli archi è di finissima fattura. E così quando
le canzoni scorrono e funzionano come queste, ci si può anche buttare alle spalle
qualche remora critica sulla (scarsa) portata storica di un disco. Per cui applausi
per un artista indipendente in grado ancora di scrivere splendidi brani come Virginia
May o That Moon Song, come tanti
altri impreziositi dall'intervento vocale di Brandi Carlile (che si sta
portando Isakov in giro per gli Stati Uniti come spalla per la promozione della
sua ultima fatica). Tirata d'orecchi bonaria invece quando sperimenta forme alternative
in Evelyn, dove si finisce per invadere un
po' il campo minato di M.Ward, o quando nella sequenza tra la title-track e Idaho
si addormenta un po' sugli allori, dimenticandosi che a lui ancora nessuno è disposto
a perdonare quei passaggi a vuoto che si concedono spesso alla sua musa Adams.
Ma brani come Big Black Car (una
prova da folk-singer vecchio stampo) o la tesissima If
I Go, I'm Goin…(che ricorda tanto i momenti più sofferti di Matthew
Ryan), non possono essere frutto di un talento dozzinale, seppur con ancora un
vagone di personalità da tirar fuori dal cilindro. Il finale è affidato alla cover
di One Of Us Cannot Be Wrong, un Leonard Cohen
d'annata (con una Brandi Carlile particolarmente in forma alla seconda voce) che
Isakov riveste della melodiosa tragicità che ci aspetteremmo ultimamente da Joe
Purdy, ma anche un scelta programmatica per ribadire da dove si viene e dove si
vorrebbe andare. La strada è ancora lunga, ma intanto l'ispirazione qui comincia
ad essere davvero quella giusta. (Nicola Gervasini)