Circondata da una cappa di dolore e di morte che avrebbe sfiancato anche
l'artista più combattivo, Susan Cowsill esorcizza i propri fantasmi attraverso
l'unica cura che conosce, la musica, quella che fin da bambina prodigio (The Coswills,
famiglia del pop americano sul finire dei 60s) l'ha accompagnata per mano. Lighthouse
arriva dopo un silenzio lungo cinque anni, tanto tempo è passato dall'esordio
dell'ex vocalist dei Continental Drifters (progetto nato intorno all'amicizia
con Vicky Peterson delle Bangles e Peter Horsapple dei Db's): un lustro che ha
portato via con sé una vita intera, privando Susan innanzi tutto delle sue radici
(la casa e i ricordi distrutti dall'uragano Katrina a New Orleans), quindi, male
assai più profondo, dei fratelli Billy e Barry Cowsill, morti improvvisamente
lasciando addosso alla cantautrice della Lousiana un incommensurabile senso di
vuoto. Per nulla abbandonata al destino, si è ripresa il suo pezzo di mondo portando
a termine un album in cui echeggiano coraggiosamente sentimenti di rivincita e
speranza, misti naturalmente ad una serie di nostalgie che non potevano non coinvolgere
il significato stesso della vita.
Registrato tra la California e la
Lousiana con il contributo di Russ Broussard, Aaron Stroup e Ted Amstrong, Lighthouse
è un lavoro più docile del precedente
(una promessa purtroppo rimasta isolata dalla lunga assenza) che sembra incentrare
il corpo delle canzoni su sonorità folk rock armoniose, in cui la tradizione si
sposa ad una ricerca melodica di "westcoastiana" memoria. Non a caso
dunque si palesano le presenze di Jackson Browne nella rustica ballata
Avenue of Ten cent Hearts e del chitarrista
per eccellenza della Los Angeles dei 70s Waddy Watchel (rivolgersi a Warren
Zevon e Randy Newman nel caso) in una rock song degna di Chrissie Hynde quale
River of Love. Ma è il disco in generale a
respirare a pieni polmoni questa atmosfera di docile liberazione, senza canzoni
particolarmente memorabili forse, eppure con una delicatezza che nella solare
Dragon Flys, in The
Way that It Goes o infine nella rispoposizione di Galveston
(classico di Glen Campbell scritto da Jimmy Webb) mette a nudo l'anima dell'artista.
Susan Cowsill dal canto suo non si nasconde e lascia fluire emozioni
molto personali: due brani in modo particolare risuonano del ricordo di New Orleans,
quando in Could This Be Home l'artista si
chiede "This is the only place I've ever belonged/ and now it's gone/ and I wanna
go home" e in ONOLA (acronimo per Oh New Orleans)
intona una vera e propria ode alla città ferita dichiarando "You always be my
city/ I will always be your daughter". Chissà cosa starà pensado ora Susan Cowsill
alla vista di una nuova incombente catastrofe che scorre e si propaga lungo le
acque del Golfo del Messico: avrà ancora la forza di alzarsi e intonare Crescent
City Sneaux? È una lunga ballata per chitarre e piano che chiude il
sipario in un crescendo che abbraccia nel finale, per la prima volta apertamente,
il sound bluesy di New Orleans, con tanto di citazione per il classico When the
Saints Come Marhin' In. (Fabio Cerbone)