Incredibilmente relegati nel più totale anonimato, The Volebeats sono
uno dei misteri meglio custoditi dell'alternative country americano, anzi potremmo
quasi azzardare che siano la band più misconosciuta del genere: ebbene si, questi
ragazzi sono in strada dal 1989, anno del loro esordio Ain't No Joke, militanza
scrupolosa nelle fila di un genere che hanno sensibilmente contribuito a edificare.
Potremmo a tutti gli effetti considerarli compagni di cordata degli Uncle Tupelo,
anche se il quintetto di Detroit, Michigan, ha sempre prediletto l'ala più tradizionalista
e nostalgica del genere, richiamando nelle sue armonie vocali e nel gioco di cristalline
chitarre la lezione dei Byrds e di certa scuola country rock californiana, magari
con l'aggiunta di un elemento british pop non indifferente. Sta di fatto che in
più di vent'anni di carriera la band di Jeff Oakes e Matthew Smith, di fatto i
timonieri del gruppo, ha dovuto sempre lavorare nelle retrovie, guadagnandosi
magari la stima dei colleghi più blasonati (di loro un tempo Ryan Adams disse
"The best American Band"), ma lasciando tracce sparse e confuse in dischi quali
The Sky and the Ocean o il desertico, sperimentale Solitude.
L'omonimo
lavoro targato 2010, ma solo oggi distribuito con una certa capillarità in Europa,
è fin dal titolo un tentativo di riassumere questa avventura nell'ombra, con il
definitivo "doppio album" capace di cogliere e ampliare ogni sfumatura del loro
sound. Diciannove canzoni, quasi settanta minuti di musica: se c'è un difetto
da riscontrare in The Volebeats è forse proprio la sua esagerata
prolissità, caratteristica che non giova all'attenzione dell'ascoltatore e forse
neppure alla qualità innegabile di buona parte del materiale. Di fatto però, escluse
le curiosità di un paio di cover insospettabili (See
You Tonight firmata da Gene Simmons dei Kiss e la più classica This
Is Where I Belong dei Kinks), questa raccolta assume davvero la dimensione
di un bignami dell'arte Volebeats: voci morbide, armonizzazioni pop e chitarre
jingle jangle che si adattano all'introspezione delle liriche, dando sfogo ad
un counry rock rigorosamente analogico (registrato su un otto piste in una vecchia
casa a pochi passi dagli studi storici della Motown) che raramente alza un grido,
ma preferisce accarezzare in We Don't Like to Forget,
farsi romantico in Me and You, esplodere in
incantevoli filastrocche pop con Things People Say,
diventare rarefatto e impalpabile con Dream Come True.
La pedal steel dell'elemento aggiunto Ryan Gimbert è li a ricordarci la
radice country dei Volebeats (You're Wrong
la più rurale), anche se è difficile non riconoscere nel loro esplicito revival
una ricerca quasi maniacale sulle ambientazioni che furono della british invasion,
poi filtrate sotto pelle in certa psichedelia californiana, anche di seconda generazione
(si pensi alla prima esperienza del Paisley underground, lato più morbido):
Walk There, la sbarazzina I
Can tell, una What You've Been Saying
che sembra uscita da qualche outtake di Turn Turn Turn dei Byrds sono nell'insieme
testimonianze di questa appartenenza, anche ingenua se volete, fuori tempo massimo
certamente, eppure sintomo di una band che lavora con dedizione. (Fabio
Cerbone)