File Under:
country folk, Americana di
Davide Albini (29/10/2014)
Ad
una decina d'anni dal suo ultimo lavoro solista, se ricordo bene As Certain as
Sunrise, Sid Griffin torna ad incidere senza la fortunata sigla dei Coal
Porters, progetto che lo ha visto impegnato nella diffusione del linguaggio country
folk americano, con un seguito soprattutto in Inghilterra e nell'Europa continentale.
Per il suo nuovo disco solista, The Trick is to Breathe, Sid è invece
volato a Nashville, riscoprendo le radici del suo percorso di musicista, quello
che lo portò dalla scena post punk e roots rock californiana dei Long Ryders verso
il country di Gram Parsons , di cui diventò anche una sorta di esegeta e biografo,
fino al bluegrass dei citati Coal Porters. Per l'attuale operazione discografica
si è affidato alle cure del produttore, stranamente di origini tedesche, Thomm
Juntz, ma in particolare di un manipolo di musicisti di area roots locale, tra
cui il bassista di Ricky Skaggs, Mark Fain, l'ottimo Justin Moses al dobro, fiddle
e banjo, Sierra Hull al mandolino e Paul Griffiths alla batteria.
L'intento
di Griffin, a detta dello stesso, era quello di non dirigere i lavori in prima
persona, di non curare insomma la parte tecnica della produzione del disco, ma
di ritornare alla vecchia usanza: farsi guidare, lasciare che i suoi brani decantassero
nelle mani di altri, magari cercando un'intesa con i musicisti. Racconta infatti
che le session si sono spesso e volentieri svolte in una atmosfera molto informale,
poche take e i brani erano già pronti nella versione definitiva. Non vorrei purtroppo
che questa sia stata più che altro una scusa per nascondere una certa stanchezza
compositiva. Riscontro in effetti un feeling artigianale in The Trick is to Breathe,
anche se il risultato non è poi lontanissimo dallo stile abbracciato dopo la chiusura
dei leggendari Long Ryders: ovvero sia poco o niente rock'n'roll purtroppo e molto
bluegrass o country rurale mescolati con mestiere.
Un disco che nasce
sicuramente da un'esigenza personale - e lo testimoniano anche le fotografie del
ricco libretto interno, che ritraggono la famiglia e gli anni giovanili di Griffin
- ma adagiato su toni troppo monotoni e senza grandi guizzi alla voce, da sempre
un punto debole del nostro, mi pare di poter rilevare. Pregevole il songwriting
mostrato nei racconti di Ode to Bobbie Gentry
e Elvis Presley Calls His Mother After the Ed Sullivan
Show, curiosa poi l'idea di rivedere Jimmie Rodgers attraverso gli
occhi di Bob Dylan (in Blue Yodel no.12 & 35), ma per il resto ci perdiamo
in qualche velleità da folksinger (il poema beat Punk Rock Club non si
regge proprio in piedi, risultando molesto), uno strumentale bluegrass inutile
e persino un paio di cover non particolarmente brillanti (il classico degli Youngbloods,
Get Together, e la Everywhere a firma
Greg Trooper). Insomma, per l'atteso come back in chiave solista si poteva fare
decisamente di meglio.