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rock blues di
Matteo Fratti (25/06/2015)
Non
brilla certo per la copertina, scontata e a dir poco banale, questo nuovo Over
Your Head di Josh Smith, licenziato per la teutonica CrossCut.
Ma sono la dozzina di songs ad attrarre l'attenzione, che neppure si risparmiano
sulle sonorità, godibili e fruibili per chi apprezzi un buon rock-blues chitarristico,
prodigale e granitico quel tanto che basta per un fragore da romperci i denti,
eppur sorrideremmo ancora. Non mancano nemmeno gli ospiti, ma sono solo una ciliegina
sulla torta stavolta, perché potremmo assicurarvi che in questo caso Joe Bonamassa,
Kirk Fletcher o Charlie Musselwhite non fanno la differenza. Certo, è un valore
aggiunto, ma il power-trio in questione gioca già la sua parte, in un rimpallo
che non sta affatto dietro gli ospiti di spicco nelle speciali tracce, sparsi
rispettivamente nell'iniziale title-track, nel bel mezzo delle danze ( … And
What) o sul finale (You'll Find Love).
Mr. Smith, Calvin Turner (basso) o Lemar Carter (batteria) azzardano una
potente amalgama che va da sé, un "wall of sound" che si regge su una
ritmica possente, a ricordarci, dietro un'immagine più discretamente blues, un'irruenza
da riff elettrici introdotti dalla batteria, così che ci aspetteremmo da un momento
all'altro la voce di Paul Rodgers a cantare non solo l'iniziale
How Long, ripresa sul finale in un jammin' vorticoso. E anche se proprio
su Over Your Head la sensazione potrebbe essere la stessa, immancabile
nostalgia dei Free, dell'Isola di Wight e di un embrionale hard-rock in nuce alla
seconda ondata del brit-boom (che fiori e colori se li era lasciati alle spalle
…) i blues rock'n'rollistici di Josh Smith non sono mai monotoni, ma si arricchiscono
di un classicissimo gusto tra Hendrix e i Cream al wha, allorché Still
Searching sembra continuare il precedente solismo strumentale di When
I Get Mine in una linea di basso che pare senza soluzione di continuità, solo
la chitarra a fraseggiare "liquidamente" in un talking interminabile e notturno,
dagli echi jazz e psichedelici, ma mai invadenti e fini a sé stessi.
Ci
sono persino gli Zep che saltano fuori da First Hand
Look, ma la band non si incasella nei limiti dello stereotipo e diventa
una festa di intrecci, gioco di rimandi mai banale, ben suonato e fruibile, classici
ben assimilati e buona personalizzazione, in un generoso, instancabile e assorto
blues feeling, mai sotto i quattro minuti. Non è un gioco di resistenza, ma un
apprezzabile lasciarsi andare che forse (proprio perché ad un certo punto, non
siamo né i Free, né gli Zep, né tantomeno gli altri riferimenti di cui sopra)
non avrebbe richiesto un cd aggiuntivo (eccessivo) con edizioni radiofoniche o
live di title-track o tracce ulteriori (la n.5).