Session Americana with Jefferson Hamer
Great Shakes
[
Session Americana
2016]

www.sessionamericana.com

File Under: folk, americana

di Luca Volpe (27/10/2016)

Il "vento d'autunno, intriso di sabbia" porta seco un dono. Billy Beard, batteria, Ry Cavanaugh, chitarra, Kimon Kirk, basso, Jim Fittinf, armonica, Dinty Child, vari strumenti sono i Session Americana e tornano con un secondo chitarrista, Jefferson Hamer. Great Shakes è il risultato, adatto alla stagione con un rock country in bilico fra il presente appena trascorso (l'alternative) e il passato glorioso degli anni Settanta (CSNY, The Band, New Riders of the Purple Sage). Il disco è interamente opera loro, dalla composizione alla produzione, musicisti dotati. Finita l'introduzione, resta un solo tassello: è un lavoro di transizione? Si e no. L'inizio malinconico di One Skinner è così classico da sembrare quasi scontato, ma stupisce per candore e garbo che cullano nel tepore assoluto.

All'estremo opposto storico e stilistico sta Bumbershoot, una canzone che potrebbe essere quella di una Dido più intimista. Big Mill in Bogaloosa è invece un quadro a tinte grottesche giocate su minimalismi strumentali e vocalità sarcastiche. What Are Those Things è una cover dei Big Black Wings, in cui emergono giochi vocali degni della magica utopia della fine degli anni Sessanta, veleggiando su batteria spazzolata e sei corde acustiche. Magico. Tired Blue Shirt è un episodio di collegamento fra le diverse anime: fisarmonica, cassa fissa, armonica effettata, chitarre in sordina… piccoli sprazzi d'effettistica notturna e stradale su cui irrompe una voce bassa e trascinata che cresce fino a toccare vertici di commozione nel finale. Epica Great Western Rail: semplice andamento strofa ritornello, ma con pathos e commozione infuse con sapienza; la chiusura è affidata ad un assolo di armonica e si merge con umiltà e grandezza alla voce tristissima e languida. Mississippi Mud risale la china, oscillando fra note di chitarra elettrica scure e gli altri strumenti più solari, attraverso un tempo medio blueseggiante che evolve inaspettato in un ritornello caldissimo. One Good Rain passa dall'umore del brano precedente ad una nuova forma di malinconia, appena un pizzico di Tom Petty da aggiungere alla loro personale ricetta e s'ottiene uno strano non inno affetto da bipolarismo.

Tralasciata finora è la canzone simbolo, il capolavoro, Helena. I richiami a Young nella voce e il delicato mandolino sono la spinta che innalza il tessuto nel lirismo disperato, mentre le note della chitarra ricamano su scale cromatiche che la drammatizzano, mantenendo una vena ironica. La storia è quella di un uomo disperato che invoca nella notte una donna che (presumibilmente) lo ha lasciato senza lasciare traccia; il tema non è originale, ma la resa è (come il disco) oscillante fra il vagare in cerca di nuove verità nascoste alla vista e il tradizionale pianto dell'uomo gentile. I Sessions Americana non sono dei giovani esordienti, e alcuni di loro vantano collaborazioni importanti, ma si spera nel loro successo. Transizione? Può darsi. Intanto, godeteveli.


    


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