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an american band di
Pie Cantoni
(25/07/2017)
Che
la band spalla di Bob Dylan, staccatasi come la proverbiale costola di Adamo,
decidesse di chiamarsi The Band, aveva un suo rigore logico ineccepibile. Sembra
banale, ma se una band era la spalla di Bob, negli anni 60, quella allora era
LA Band. Maiuscolo. Punto. Da allora siamo passati a nomi generalisti come Chicago,
Boston, North Mississippi (Allstars), fino a giungere al culmine. The Americans.
Un nome al cui confronto "I Cosi" sembra quasi originale, un nome che mette la
parola fine a quelli più astrusi (Car Seat Headrest, Baseball Project, Them Crooked
Vultures), un nome che mette una pietra tombale ad ogni deriva geografica all'appellativo
di una band.
Ovviamente The Americans è stato scelto in seguito allo storico
lavoro fotografico di Robert Frank, ma con un nome così non ci si può aspettare
altro che una band mitica ed eterna, che rappresenti l'America nel suo complesso,
un po' proprio come The Band. Non come per i quasi omonimi Hard Working Americans,
dove l'idea che ci possiamo fare è di gente che lavora duro e basta, indipendentemente
dal tipo di lavoro (musicisti, muratori, cuochi?) o dal risultato ottenuto (lavorare
duro è una cosa, lavorare bene un'altra). Quindi piuttosto rischioso chiamarsi
così, perché le aspettative sono alte. A rincarare la dose il fatto che la band
era stata scelta da Jack White, T Bone Burnett e Robert Redford per apparire nel
documentario pluripremiato American Epic (www.americanepic.com)
uscito da poco.
Formatisi a Los Angeles, California, la band è composta
da Patrick Ferris, Jake Faulkner, Zac Sokolow e ha iniziato come una band di revival
blues e folk, per finire mescolando tutte le influenze in un calderone di suoni,
amalgamati sì, ma non al meglio. Infatti si possono distinguere al limite
della copia, qua e là le influenze maggiori del gruppo che emergono dalla miscela
non ancora perfettamente e omogeneamente mischiata. Una delle più ingombranti
è sicuramente quella di Bruce Springsteen, che si può sentire distintamente in
brani come The Right Stuff, Nevada
o Last Chance (il Boss dei grandi concerti
da stadio) o la title track I'll be Yours
che potrebbe essere un b-side di Nebraska, mentre le radici rock n' roll alla
Chuck Berry sono evidenti in Hooky o Long Way
From Home. Qualche eco delle grandi e polverose pianure narrate da
Cormac Mccarthy e cantate dai 16 Horsepower si possono trovare in Stowaway,
anche se si perde nei ritmi sovrapposti e nei controtempi, che tanto bene venivano
invece alla band di David Eugene Edwards. Un po' sciatte e inconsistenti brani
come Daphne o Bronze Star, che cercano di essere delle ballate molto
soft ma non riescono nell'intento.
The Americans potranno piacere
sì a chi ha nostalgia di un certo rock mainstream, "americano" nel senso
che comunemente viene dato, ma dovranno crescere dal punto di vista compositivo
e qualitativo per interessare invece il pubblico più attento e con un orecchio
più allenato non tanto nel cercare assonanze con quanto già sentito, ma nel cercare
il "nuovo dentro il vecchio". Perché di veramente nuovo in questo I'll Be
Yours ce n'è veramente poco.