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Paesaggio nella nebbia di
Gianfranco Callieri (12/04/2018)
Pur
essendo solo al secondo disco, Adam James Sorensen da Chicago, Illinois,
sembra aver comunque affinato la capacità invidiabile di distillare i colori,
le polveri, gli umori e lo spirito di una terra nell'intreccio equilibrato, armonico
e senza una nota di troppo tra la propria voce e la propria chitarra. Sono questi
ultimi, senza dimenticare l'intervento occasionale di strumenti classici - contrabbasso,
violino, violoncello - i due elementi intorno ai quali si srotola, diversi anni
dopo l'esordio contrassegnato dall'altrettanto interessante Midwest (2012), l'espressività
oppiacea e subliminale di Dust Cloud Refrain, uno di quei dischi
dove la materializzazione di una scenografia, in questo caso la striscia di terra
avente come punta settentrionale i laghi di Michigan e Wisconsin (come punta meridionale
il golfo della Louisiana), diventa la circostanza in cui attraversare il confine
sonoro tra più stati e tra centinaia d'immagini.
Nonostante i numerosi
riferimenti a Woody Guthrie e le ripetute citazioni di un rhythm of the rail ("ritmo
della rotaia") che unirebbe le differenze fra Texas, Oklahoma e Utah nello snodarsi
icastico e ripetitivo della ferrovia, le canzoni di Sorensen non guardano tanto
al folk contestatore di mezzo secolo fa quanto alla pastorale semiacustica degli
Iron & Wine di Sam Beam, al linguaggio asciutto dei cantautori texani e alle melodie
forbite del folk-rock anni '70, tutti punti di riferimento grazie ai quali l'andatura
densa, rallentata, cinematografica e suggestiva dei nove brani di Dust Cloud Refrain
riesce a trovare la propria fisiologia, in ogni episodio oscillante tra visione
e ricordo. Nella scrittura di Sorensen, nel ritmo arcaico della commossa Jane
Dudley (con qualche strizzatina d'occhio al primo John Gorka) come
nella sconfinata malinconia di una Boiling Over
imparentata con le canzoni più mosse di David Wilcox, nella marziale efficacia
di una title-track dove si riscontrano parentele con la virile solennità folkie
di Richard Shindell come nell'impianto classicheggiante di una Coming Back
della quale sarebbe andata orgogliosa la Nanci Griffith signorile e letterata
di Other Voices, Other Rooms (1993), c'è una voce poetica capace di chiedere al
cielo, alle praterie e alle strade della propria terra di restituirgli, in chiave
sonora, un pezzo della sua anima, in quell'abbandono di sé che è l'unico mezzo
per trasformare la biografia personale in racconto universale e significante.
Ciò non significa, com'è ovvio, che Dust Cloud Refrain sia un capolavoro,
perché non lo è; eppure, la profondità e l'autorevolezza con cui, prendendo sul
serio i tratti del paesaggio e la loro valenza simbolica, si dimostra in grado
di delineare un vero e proprio pellegrinaggio musicale, meritano senza dubbio
rispetto indiscriminato. "Se potessimo aprire le persone, dentro di loro troveremmo
dei paesaggi", dice l'anziana e ancora splendida regista francese Agnès Varda
al fotografo parigino JR, molto più giovane di lei, nel recente e delizioso film
girato a quattro mani da entrambi, Visages Villages (2017). Se aprissimo l'animo
di Adam James Sorensen, molto probabilmente vi troveremmo quel racconto
folk di vaste pianure, campi aperti, acque cristalline e natura selvaggia messo
in musica, nella scaletta di Dust Cloud Refrain, con essenzialità e misura esemplari.