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a proposito del folk di Schmidt
di Gianuario Rivelli (28/03/2019)
Se decidi di intitolare
il tuo album come un indice statistico di dispersione (altrimenti detto
scarto quadratico medio), a caldo viene da pensare che o sei matto
da legare o devi proprio avere una bella faccia tosta. Poi quell’album
lo ascolti e realizzi che la canzone eponima è una riflessione filosofica
su quanto l’intelligenza possa essere sexy e su come le doti cerebrali
di una donna siano sempre guardate con un certo sospetto in certi ambienti
dove il maschilismo è duro a morire. Come poi in questo discorso si siano
potute infilare statistica, meccanica quantistica e fisica teoretica,
è solo la sfrenata penna di Danny Schmidt a saperlo, dimostrando
una volta di più come il cantautore texano sia capace di tirar fuori dal
suo cilindro versi sempre insoliti e ricercati, quasi si trattasse di
riflessioni letterarie condensate nello spazio angusto di una canzone.
Secondo disco dopo il ritorno all’indipendenza (nel 2016 ha risolto il
rapporto con la Red House con cui aveva pubblicato per sette anni) e decimo
in totale di una carriera da promessa non proprio mantenuta, Standard
Deviation è una raccolta di bozzetti puramente acustici e contemplativi
in cui molto bassa è la deviazione standard da un folk gentile
e bucolico in cui, lo si sarà capito, le liriche la fanno da padrone.
La nascita della figlia Maizy con i conseguenti stravolgimenti è stato
l’innesco dell’album (d’altronde la famiglia compenetra la sua attività
non poco: la moglie Carrie Elkin è a sua volta una cantautrice e a lei
sono qui affidate le armonie vocali), ma Schmidt non si è limitato alla
canzone di benvenuto all’erede di prammatica, bensì ha raddoppiato e con
buoni risultati: sia Just Wait Til They See You
che Blue-eyed Hole in Time tengono sotto il livello
di guardia retorica e melassa trattando il tema con una certa originalità.
C’è anche Bob Dylan, punto di riferimento del nostro (e non solo suo,
a occhio e croce), con “la sua conversione da portabandiera del movimento
folk a veicolo del flusso di coscienza del crescente malessere della cultura
giovanile” che in Newport 65 fornisce
lo spunto per parlare dell’eterno dilemma dell’artista tra la sua vera
identità e quella che il pubblico gli cuce addosso.
Rispetto al passato, Schmidt ha praticamente eliminato ogni strumento
elettrico e non si è curato più di tanto del vestito di queste canzoni,
lasciandole fin troppo nude ed esposte alle intemperie dell’ascoltatore
che non sempre ha una soglia di noia himalayana e gradirebbe qualche variazione
o sporcatura. Invece tutto procede come un flusso unico e spesso monocorde
(fa eccezione e aumenta il rimpianto Last Man
Standing che presenta salubri iniezioni country) e i bei testi
non possono bastare ad eliminare le perplessità. Un altro punto tendente
al basso di una carriera sinusoidale.