Ogni volta che ascolto un
disco di Rod Picott mi dico sempre “meno male che esistono ancora
artisti come lui”. Discorso che potrebbe valere per tanti altri irriducibili
artigiani della canzone americana che dagli anni 90 ad oggi non hanno
mai mollato una carriera avara di riconoscimenti (non so perché, così
su due piedi, mi viene in mente Slaid Cleaves, qui coinvolto come coautore
di Mama’s Boy), ma talmente interessati alla vita da cantastorie da non
voler mai abbandonare il campo. Di Rod Picott ci siamo occupati spesso,
è un autore bravo, a cui forse, anche per questioni produttive, è mancato
in carriera il disco mitico da ricordare tra gli appassionati anche a
distanza di anni, e anche questa volta è tutto lì che sta il “problema”.
Tell The Truth & Shame The Devil arriva dopo il tour de
force del doppio album Out
Past the Wires, album anche parecchio elettrico, e ribalta
tutto offrendo il classico voce-chitarra-armonica dell’american-hobo,
tradizione che giammai smetteremo di seguire e onorare nonostante sia
davvero fuori moda. Lui stesso sul suo sito presenta il disco con un certo
orgoglio come “il più intimistico della sua carriera”, nato in seguito
ad un periodo di grave malattia nel 2018 che lo ha tenuto a lungo chiuso
in casa. Ghosts apre infatti il disco
parlando proprio della paura della morte che porta a fare rendiconti di
vita pregni di malinconia. Più cupa Bailing, che ricorda i viaggi
in macchina col padre sulla Route 65 (il padre ritorna anche in The
Beautiful Life, in cui descrive la sua vita tutta lavoro-birre al
pub alla sera), mentre Mark è la storia
di un amico di infanzia amante dei Beatles morto suicida a 17 anni. Seguono
la galleria di figure umane perdute nello squallore di The Spartan
Hotel, l’acida autoironia di 38 Special and
a Hermes Purse (“Sono un disastro ferroviario che trasforma
il Beaujolais in piscio” dice, una immagine che gli deve essere piaciuta,
visto che nella successiva 80 John Wallace si definisce come “Una palla
di fuoco piena di piscio e aceto”).
Il difetto del disco purtroppo sta nelle limitate capacità espressive
di Picott, che non essendo vocalist di particolare personalità o chitarrista
in grado di riempire da solo gli spazi, si limita ad un compito da registrazione
casalinga che rende l’album un po’ piatto come soluzioni, e troppo simile
ai tanti album autoprodotti di questo tipo di cantautorato. Peccato perché
il materiale meriterebbe una veste più interessante, a riprova che l’arte
dello storytelling americano non è morta, ma ha forse perso la capacità
(o forse solo la possibilità) di comunicare al meglio con il presente.