Il senso di Omnidirectional,
primo album di canzoni nuove degli Schramms dai tempi ormai vetusti
del precedente, non irresistibile 100 Questions (2000), sta forse
nelle cadenze estemporanee dell’ultimo pezzo, Two A.M. Slant, un
rarefatto esercizio per chitarra acustica improvvisato da Dave Schramm
nella sua casa di Hoboken, New Jersey, durante la notte. La disadorna
spontaneità di quel congedo, unita alle fotografie — istantanee di porte
in decadenza e interni dove la luce del giorno sembra filtrare quasi per
errore — utilizzate nell’altrettanto scarno libretto di accompagnamento
al Cd, delineano la cifra stilistica di un album fatto di chiaroscuri
e sfumature, sottolineano la filigrana sottile (e a tratti impalpabile)
di un folk-rock notturno e come armonizzato a un perenne indebolimento
dei sensi, esplicitano il carattere minimalista, volutamente marginale
e in fondo piuttosto scostante di una scrittura quasi mai incline a uscirsene
dalle proprie meditazioni e dalle proprie ossessioni.
Il produttore JD Foster si dimostra, al solito, pressoché inappuntabile
nell’organizzarne il suono fin nei minimi dettagli, di volta in volta
disciplinandoli affinché gli archi e il clarinetto della classicheggiante
Not Calling, oppure le percussioni
assortite di una Faith Is A Dusty Word
appena più vivace della media, non sopravanzino l’estensione della voce
di Schramm e il suo modo di porgere le strofe tra l’assonnato e il sofferente,
una specie di mormorio sommesso, sfuggente e pensoso per sua natura non
predisposto a spezzarsi o ruggire. Fin qui poco male, perché la storia
della musica, come sappiamo tutti, non è certo stata avara di artisti
in grado di trasformare la personale introversione in forza espressiva
all’occorrenza dirompente. Eppure, questo non sembra proprio essere il
caso di Schramm, autore al quale, in virtù di un’antica militanza negli
Human Switchboard (pionieri di una new-wave in salsa elettronica tanto
trascurata, all’epoca del suo apparire, quanto rivalutata in seguito)
e nella prima formazione dei concittadini Yo La Tengo, si chiederebbero
sempre un pizzico di originalità in più, uno scarto di forma, una possibile
deviazione di percorso.
Invece, gli Schramms continuano a suonare esattamente come gli Yo La Tengo
degli esordi, però con l’aggravante di non poter più fare affidamento
sul sassofono di Pete Linzell (non a caso finito a esibirsi con Go To
Blazes, Marky Ramone o New Bomb Turks), tra tutti gli elementi della loro
architettura sonora d’un tempo di certo il più incline a qualche soffio
di romanticismo da «East-coaster» più viscerale e meno composto. Il timido
pianoforte dell’assorta Honestly Now, la dolente sprezzatura rock
(per così dire) della flemmatica New England, gli scossoni delle
ruvide Spent e
The Day When (forse gli unici episodi in cui Schramm si ricorda
di aver fatto parte, sebbene solo come turnista, di Replacements e Soul
Asylum), nonché il sorprendente assolo di sei corde della classica Hearts
And Diamonds, hanno la forza di un andamento colloquiale in cui è
facile sentirsi a proprio agio, ma hanno anche il difetto di non entrare
in circolo nemmeno dopo ascolti ripetuti, mentre davanti all’arrangiamento
in pari misura pretenzioso e inconcludente di Good Youth — un intreccio
di banjo e xilofono che ci si chiede chi possa aver reputato di un qualche
interesse — è meglio far finta di aver saltato un brano.
Alla fine, Schramm e i suoi accoliti paiono degli American Music Club,
magari quelli laconici di California (1988), cui qualcuno abbia sottratto
le angosce, i tormenti e anche l’impressionismo sperimentale di Mark Eitzel
per rimpiazzarli con l’eleganza estenuata dei reduci interessati soltanto
a capitalizzare sulla riconoscibilità della propria formula. La quale
formula, a dirla tutta, non essendo mai stata disastrosa, non lo è neanche
diventata, all’improvviso, oggi. Anche se dopo quasi vent’anni di silenzio,
dalla sigla degli Schramms era lecito attendersi qualcosina in più.