Shane Smith and The Saints
Hail Mary

[Geronimo West Records 2019]

shanesmithmusic.com

File Under: heartland pop rock

di Luca Volpe (11/10/2019)

Non è stato facile venire a capo di questa matassa, ma il pubblico ha diritto di sapere di questo disco, straordinario nel bene e nel male. Shane Smith è cantante e chitarrista acustico, comandante di una truppa che si compone di: Chase Satterwhite al basso, Zach Stover alle percussioni, Tim Allen alla chitarra elettrica, Bennett Brown al violino. Questo è il terzo tentativo di Shane Smith e della sua voce fuori del comune d'imporsi su una scena ingorgata e persa, e l'influenza di Granduciel (War on Drugs) e Chris Stapleton sta smuovendo un'onda che potrebbe ribaltare la situazione. Dopo i tentativi un po' timidi di rifare per l'ennesima volta Eagles e Manassas, Smith intuisce il grande fiume degli anni 80 e ci si tuffa.

Attivo discograficamente dal 2012, questo progetto si lancia in un disco denso in tutti i sensi, con un cuore controverso, un vero azzardo: in questo muscolare heartland rock, mescolare country classico e pop odierno, fondendo anni 80 e 2010 è la cifra stilistica complessiva, un tentativo di mettere in relazione cose diverse ma per cosa: aggiornare? Avvicinare un pubblico obnubilato dalla melma a solidità positive? Speculazione? Tutto questo insieme? In ogni caso, si parte con Heaven knows, dove soul mezzo gospel dell'ultimo decennio si fonde con chitarra hard e violino bluegrass; Smith canta con un afflato degno di Tom Petty ma con tono alla Boss abbassato verso il baritonale di Cohen. Un biglietto da visita d'impatto.

Whirlwind
è personale e allegra, incedendo fra cambi di tempo e il lavoro di Brown che risalta di continuo nella sarabanda. La cupezza e la disperazione di Oklahoma City rischiano di far finire il pathos nel patetismo, poi Parliament Smoke cala con una robusta invettiva solcata da melliflui coretti pop inseriti nel rock. Ancora più sul filo del rasoio Hail Mary, dove l'iniziale sussurro del cantante si trasforma in ruggito potentissimo, assieme al fragore che il gruppo sposta dall'asse acustico a quello elettrico. Little Bird è una ballata troppo piaciona che affonda nel patetico senza ritegno, e peggio fa We Were Something, uno stereotipo su pentagramma di tutte le tendenze compreso l'onnipresente triviale violencellismo derivato da trucide serie televisive. Last Train to Heaven rincorre gli ultimi Lynyrd Skynyrd con buoni risultati, con una canzone che rimette in carreggiata il disco. Sunto della grandiosità e dell'imbarazzo è We'll Never Know: la chitarra più bella del disco si sposa assieme a coretti degni dei peggiori gruppi di venduti al tempio di Babilonia.

E proprio qui irrompe il punto centrale come sempre: cos'hanno in comune giganti come Chris Isaak con nomi minori o trascurabili come The Killers o gli orribili Imagine Dragons? Il tecnico del suono Mark Needham, quì produttore. E allora potrebbe partire la questione su di chi sia veramente un disco quando lo stile cambia così (del musicista o del produttore?), ma è preferibile lasciare questa domanda irrisolta e ascoltare ancora.


    


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