Faccia giovane dell’altra
Nashville, foto che lo ritraggono con una maglietta con la scritta “cosmic
cowboy”, Daniel Donato ha venticinque anni e un buon futuro davanti,
se saprà tenere a freno la sua esuberanza di chitarrista. Gioca a carte
scoperte il ragazzo, con una foga da veterano e le idee già abbastanza
chiare su quale direzione dovrà prendere la sua musica. A Young’s
Man Country piazza sulla divertente copertina cactus e funghi,
rose, cavalieri e scheletri di cavallo sotto un sole cocente e psichedelico:
gli amori sono dichiarati, anche se resi attraverso simboli da decifrare.
La folgorazione è giunta dopo che uno dei suoi insegnanti di chitarra
gli ha regalato un cofanetto dei Grateful Dead, scoprendo così il collegamento
mancante fra la country music di famiglia e le lunghe jam a colpi di rock
lisergico. Da qui l’ossessione vera e propria di formulare un album che
fosse un omaggio alla stagione della cosiddetta comisca americana, quando
la psichedelia attraversava i canyon californiani e si incontrava con
la tradizione.
A Young’s Man Country, prodotto da una vecchia volpe dello strumento
come Robben Ford, a fare da chioccia al giovane Donato, è un’ode
a quel sound, rivisitato attraverso l’eccitazione di un artista ancora
sbarazzino, uno che ha dodici anni passava le notti dormendo abbracciato
alla chitarra e a diciotto si trovava già nei bar di Nashville a fare
il turnista (con la Don Kelley Band). Voce un po’ infantile e “leggera”,
ma sei corde fantasiosa, Daniel Donato ha nel suo eccessivo entusiasmo
l’arma per conquistare e al tempo stesso l’ostacolo maggiore per perdersi
a volte in un’abbondanza non necessaria di note. Il tempo è dalla sua
parte e A Young’s Man Country si avvia con convinzione grazie alla
Telecaster del protagonista che gigioneggia sul country rock funkeggiante
di Justice, prima di favorire l’inclinazione
alla jam del gruppo nella leggera melodia di Always Been a Lover.
Meet Me in Dallas apre la cavalcata “deadiana” dell’album: il brano
si dilata come insegnerebbe mastro Jerry Garcia, annunciando la successiva
cover di Fire on the Mountain (brano
dei Grateful Dead da Shakedown Street), nove minuti di svago country
funk che torna sulla terra con il passo honky tonk della successiva Luck
of the Draw.
Nel cuore di Daniel Donato batte anche un po’ di mitologia da fuorilegge
e A Young’s Man Country diventa un piccolo riassunto di un decennio,
i Settanta, che spostò la barra del country verso il southern rock e l’elettricità:
oltre alla costante ombra dei Dead (che si impossessano della rilettura
di Angel of Montgomery, classico riconosciuto
di John Prine), emergono dunque Merle Haggard e Waylon Jennings (Broke
Down), l’Allman Brother Band a trazione Dickey Betts e la Charlie
Daniels Band (lo sfoggio di Diamond in the Rough),
fino alla conclusione di Ain’t Living Long Like This, sobbalzante
rock’n’country scritto da Rodney Crowell che fu anche nel repertorio di
Emmylou Harris e del citato Jennings.
Al netto delle ingenuità e di una scrittura che spesso pensa più all’improvvisazione
dal vivo che non alla tenuta della canzone, Daniel Donato possiede una
visione musicale che lo potrebbe condurre lontano.