Poeta, songwriter e attore,
RB Morris da Knoxville, Tennessee è un tesoro nascosto della canzone
americana, una di quelle figure che incarnano alla perfezione l’idea del
troubadour, del musicista errante, di chi sa tradurre in una folk song
tutto l’arcano del mito della strada, della frontiera, del viaggio infinito.
Se ancora resistono scampoli di quel sogno che appartenne alla generazione
beat, ma che è filtrato anche nella grande tradizione dei folksinger,
sono da cercare in questi testimoni ai margini. Going Back To The
Sky, album del tutto indipendente, uscito in sordina all’inizio
dell’anno e ora distribuito anche sulle piattaforme digitali internazionali,
appartiene al mondo dei John Prine (sulla cui etichetta, la Oh Boy, guarda
caso Morris debuttò anni fa grazie all’ottimo e dimenticato Take that
Ride), dei Guy Clark, dei Greg Brown (e qui fa il suo ingresso Bo
Ramsey, chitarrista e sparring partner di Brown per una vita, che
produce e suona nell’intero Going Back To The Sky), insomma, di
quelli che curano una canzone come fosse un oggetto di fine artigianato.
Lo dimostra questo album, episodio di una carriera parca e defilata, mentre
Morris era impegnato anche a pubblicare due raccolte di poesie (che gli
sono valse il plauso dei colleghi Steve Earle e Lucinda Williams) e a
scrivere una piece teatrale dedicata al grande scrittore James Agee. Attraversato
da un sound asciutto che porta il country di Nashville tra gli acquitrini
sudisti, il folk d’autore a contatto con brezze desertiche e il talkin’
blues, Going Back To The Sky conquisterà chi tiene in considerazione
voce, testo e musica allo stesso tempo, chi guarda ai dettagli e ai caratteri.
RB Morris ne descrive parecchi lungo il percorso, definendo il disco il
suo personale “dustbowl record”, non perché necessariamente legato all’influenza
della Grande Depressione, di Woody Guthrie o John Steinbeck, quanto perché
figlio di una sorta di diario musicale da grande romanzo americano. E
che si tratti di un racconto in musica, diviso in quattordici capitoli/
canzoni, lo si intuisce dalla presenza di un Prelude, breve strumentale
attraversato dal malinconico soffio dell’armonica di Mickey Raphael (Willie
Nelson), che sembra fare da prefazione, prima che appaia il dolcissimo
walzer di Red Sky a dare il via alla
narrazione.
Voce confidenziale, cadenza bluesy, Morris lascia cullare versi e descrizioni
dalla chitarra ficcante eppure minimale di un maestro come Bo Ramsey,
accomodandosi tra l’aria pigra e laid back di Me and My Wife Ruth,
quella sabbiosa e western di Missouri River Hat
Blowing Incident, tra il recitato paludoso di Montana Moon,
che evoca i fantasmi di Tony Joe White e John Trudell, l’allestimento
swamp in piena regola di Six Black Horses and
a 72 Oz. Steak e una spassosa pantomima mariachi, Under
the Cigar Trees, che piacerebbe a Joe Ely. Oltre al pizzicare languido
di Ramsey, si mettono in evidenza la steel guitar di Greg Horne e occasionalmente
il mandolino e il violino di David Mansfield, mentre la ritmica ondeggia
indolente tra lo scheletro rockabilly di That’s the Way I Do, che
potrebbe uscire dai primordi della Sun records, la manfrina jazzy di Old
Copper Penny e persino il romanticismo retro di Once in a Blue
Moon.
Che un album così si chiuda sulle note di una ballata folk come Walking
Song è meglio di una confessione a cuore aperto: là fuori resta solo
la strada, RB Morris ce la racconta poggiando sulle spalle dei giganti.