RB Morris
Going Back to the Sky

[RB Morris 2020]

Sulla rete: rbmorris.com

File Under: storyteller


di Fabio Cerbone (20/09/2020)

Poeta, songwriter e attore, RB Morris da Knoxville, Tennessee è un tesoro nascosto della canzone americana, una di quelle figure che incarnano alla perfezione l’idea del troubadour, del musicista errante, di chi sa tradurre in una folk song tutto l’arcano del mito della strada, della frontiera, del viaggio infinito. Se ancora resistono scampoli di quel sogno che appartenne alla generazione beat, ma che è filtrato anche nella grande tradizione dei folksinger, sono da cercare in questi testimoni ai margini. Going Back To The Sky, album del tutto indipendente, uscito in sordina all’inizio dell’anno e ora distribuito anche sulle piattaforme digitali internazionali, appartiene al mondo dei John Prine (sulla cui etichetta, la Oh Boy, guarda caso Morris debuttò anni fa grazie all’ottimo e dimenticato Take that Ride), dei Guy Clark, dei Greg Brown (e qui fa il suo ingresso Bo Ramsey, chitarrista e sparring partner di Brown per una vita, che produce e suona nell’intero Going Back To The Sky), insomma, di quelli che curano una canzone come fosse un oggetto di fine artigianato.

Lo dimostra questo album, episodio di una carriera parca e defilata, mentre Morris era impegnato anche a pubblicare due raccolte di poesie (che gli sono valse il plauso dei colleghi Steve Earle e Lucinda Williams) e a scrivere una piece teatrale dedicata al grande scrittore James Agee. Attraversato da un sound asciutto che porta il country di Nashville tra gli acquitrini sudisti, il folk d’autore a contatto con brezze desertiche e il talkin’ blues, Going Back To The Sky conquisterà chi tiene in considerazione voce, testo e musica allo stesso tempo, chi guarda ai dettagli e ai caratteri. RB Morris ne descrive parecchi lungo il percorso, definendo il disco il suo personale “dustbowl record”, non perché necessariamente legato all’influenza della Grande Depressione, di Woody Guthrie o John Steinbeck, quanto perché figlio di una sorta di diario musicale da grande romanzo americano. E che si tratti di un racconto in musica, diviso in quattordici capitoli/ canzoni, lo si intuisce dalla presenza di un Prelude, breve strumentale attraversato dal malinconico soffio dell’armonica di Mickey Raphael (Willie Nelson), che sembra fare da prefazione, prima che appaia il dolcissimo walzer di Red Sky a dare il via alla narrazione.

Voce confidenziale, cadenza bluesy, Morris lascia cullare versi e descrizioni dalla chitarra ficcante eppure minimale di un maestro come Bo Ramsey, accomodandosi tra l’aria pigra e laid back di Me and My Wife Ruth, quella sabbiosa e western di Missouri River Hat Blowing Incident, tra il recitato paludoso di Montana Moon, che evoca i fantasmi di Tony Joe White e John Trudell, l’allestimento swamp in piena regola di Six Black Horses and a 72 Oz. Steak e una spassosa pantomima mariachi, Under the Cigar Trees, che piacerebbe a Joe Ely. Oltre al pizzicare languido di Ramsey, si mettono in evidenza la steel guitar di Greg Horne e occasionalmente il mandolino e il violino di David Mansfield, mentre la ritmica ondeggia indolente tra lo scheletro rockabilly di That’s the Way I Do, che potrebbe uscire dai primordi della Sun records, la manfrina jazzy di Old Copper Penny e persino il romanticismo retro di Once in a Blue Moon.

Che un album così si chiuda sulle note di una ballata folk come Walking Song è meglio di una confessione a cuore aperto: là fuori resta solo la strada, RB Morris ce la racconta poggiando sulle spalle dei giganti.


    


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