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solo folk
di Marco Restelli (14/01/2021)
Come sarebbe possibile non
giudicare a dir poco coraggioso un artista in grado di concepire, a esclusivo
beneficio di qualche “superstite romantico”, un album interamente stripped
to the bone (voce e chitarra acustica)? Il londinese Rupert Wates
in un solo giorno si è chiuso in studio di registrazione uscendone fuori
con il suo ottavo album, nuovo di zecca, al quale ha dato un titolo: Lamentations
che, a dirla tutta, potrebbe addirittura scoraggiarne l’ascolto. In realtà,
dopo averlo fatto svariate volte, ciò che mi sembra più evidente è che
questo suo lavoro non solo non annoia, ma sembra abilmente rubato dagli
scaffali di Richard Thompson (soprattutto), Nick Drake o John Martyn.
Gli autorevoli richiami non sono affatto gratuiti, perché dietro ogni
pezzo è facile percepire l’influenza di questi “mostri sacri” del folk
inglese ai quali, a modo suo, sembra voler rendere omaggio. La sua voce,
dal marcato accento britannico e calda come una coperta, è al centro dell’estetica
di questa dozzina di canzoni semplici e poetiche che raccontano storie
sull’inesorabile scorrere del tempo, sulla vita, sulla morte e sull’amore.
L’iniziale The Carnival Waltz è una
ballata intensa che apre le danze con una melodia avvolgente. Utilizzando
l’allegoria della giostra e dei suoi cavalli che girano, Wates ci fa riflettere
sui tanti volti delle persone che incontriamo e alle quali vogliamo bene
ma che, purtroppo, a un certo punto scompaiono dalla nostra vita. Alcuni
ritornano, ma altri per svariati motivi (compresa la morte) scendono dal
carosello e ci lasciano per sempre. In Time Of Breaking parla dei
momenti difficili che primo o poi arrivano per ognuno di noi e che dobbiamo
affrontare ben sapendo che il mondo va avanti lo stesso, anche quando
per noi (o chi amiamo) sta arrivando la fine. L’incantevole
California One racconta di un viaggio sull’autostrada che attraversa
tutto il Golden State durante il quale le immagini della splendida natura,
che regalano uno spettacolo magnifico, diventano l’occasione per considerazioni
di carattere personale e relative a un rapporto sentimentale. L’episodio
forse più bello del disco è il coinvolgente finger picking di From
Where You Are che scalda il cuore attraverso la musica e i
suoi versi sognanti (…With love alone to be your guide you’ll touch the
skies / You’ll take a ride with me on my guitar). Ascoltarla al buio,
soli davanti al fuoco (per chi ha la fortuna di poterlo accendere) o guardando
le luci fuori dalla finestra regala momenti unici.
Farewell And Adieu, la più Dylanesque dell’album, parla del difficile
addio ad un amico, mentre l’album si chiude con la più andante I'll
Never Tire Of Looking (in Your Eyes), dichiarazione di amore di un
uomo ormai anziano alla propria donna (“once I was a young man knocking
on the doors getting tired of hearing no reply Now I’m so much older than
I was before but I’ll never tire of looking in your eyes”). Come dicevo
all’inizio, roba per inguaribili romantici ormai fuori moda, tutti gli
altri ne restino alla larga.