More miles than money recitava qualche anno
fa il titolo di un vecchio album di Alejandro Escovedo. L’adagio si adatta
bene a tutti gli outsider là fuori sulle strade americane, che continuano
ostinatamente a provarci, e a maggior ragione è valido per un folksinger
elettrico come Tim Easton, uno dei migliori talenti espressi dalla
generazione di autori emersa alla metà degli anni Novanta. Una vita complicata
quella del musicista indipendente, una bella serie di errori che si accumulano,
il conto da pagare che arriva superata una certa età. Eppure Tim Easton
ci tiene a farci sapere che non si conosce mai abbastanza una persona
per poterla giudicare: You Don’t Really Know Me, canzone
e album omonimo, mettono le cose in chiaro, viaggiano spediti sulle ali
di quel folk rock brillante, a metà strada fra Memphis e Nashville, che
lo avevano rivelato a inizio carriera, tornando in parte a far suonare
le chitarre elettriche e inseguendo sempre un beat sbarazzino.
Ci voleva, dopo qualche passaggio a vuoto, e una manciata di album interlocutori,
che avevano preferito ripiegare sui toni più acustici dello storyteller.
Qui c’è un sound bilanciato tra canzone roots d’autore e pulsioni rock’n’roll,
e anche la produzione curata con i vecchi amici Brad Paul e Robin Eaton
ritorna alla stagione degli esordi. Il risultato è di ringalluzzire le
ballate di Easton, il quale porta in dono una decina di brani e una mezz’ora
di musica composta durante il periodo forzato di ritiro dai tour: molti
spunti biografici, ma anche una sensibilità sociale che non manca di emergere
nel rollio folk blues di Real Revolution
e in un’intensa, “missisippiana”, Son My Son. Il suono “dal vivo”
della band, catturato in studio con attenzione ai dettagli tradizionalisti
della scrittura di Easton, è un toccasana per dare respiro a queste canzoni,
un piccolo sunto di quelle qualità che fecero di Easton uno dei cavalli
di razza della scuderia New West (quattro dischi per l’etichetta e collaborazioni
importanti, anche con i Wilco), prima di tornare nell’oscurità delle produzioni
indipendenti.
Luminosa e gentile la melodia e il fingerpicking acustico di Voice
on the Radio, dedica alla figura scomparsa di John Prine, mentre
la chiusura di River Where Time Was Born, più bluesy e rurale nel
suo incedere, ha parole dolci e commosse nel ricordo di Justin Townes
Earle. Da altre parti, come anticipato, l’album si fa più spigliato nelle
sue ammissioni biografiche, un roots rock che conserva sempre un bel senso
del ritmo (Speed Limit, o ancora l’inno
di speranza in Festival Song) e non rinnega certo le sue ascedenze
dylaniane (il dialogo fra chitarre, armonica e organo di Running Down
My Soul), portando a casa il bottino pieno e senza perdersi in inutili
riempitivi. Bentornato.