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The Bean Pickers Union
Greatest Pikcs
[The Bean Pickers Union 2021]

Sulla rete: thebeanpickersunion.bandcamp.com

File Under: american roots music


di Luca Volpe (28/09/2021)

Chuck Melchin pubblica questo disco a ridosso dell’autunno, e non è coincidenza: Greatest Picks, raccolta di brani editi e inediti della Bean Pickers Union, è una riflessione che abbraccia quindici anni di storia di un progetto musicale di spessore, ed è riflessione da clima autunnale. Lo avevamo perso nell’ultima uscita, quì riproposta in quattro brani, ma questo bel disco ci offre la possibilità di scrivere che non avevamo sbagliato. Col senno di poi, si dirà, son piene le fosse, ma la grandezza dell’operazione di Greatest Picks è offrire uno sguardo dal dentro del progetto, la maturazione pura. Chi ha già gli altri dischi, perchè dovrebbe riprenderli, pur parzialmente, con questa riedizione? Melchin ha fatto una riflessione, non un riassunto, della sua opera e nel muro assordante della non musica contemporanea, Beans Pickers Union risuona salutare, con piccoli difetti che lo rendono umano.

Il risultato è un super disco, uno specchio completo di sé del cantautore. Le collaborazioni non fioccano, meccanica per la quale molti maniaci dei nomi come garanzia comprano a scatola chiusa: quì è passato il grande Bob Metzger (chitarrista di Leonard Cohen) e basta, lo spirito del progetto è schiettamente autonomo e legato al territorio di provenienza di Melchin. Si rimanda alle recensioni pubblicate anni fa per i brani provenienti da esse, e verranno privilegiati gli otto sconosciuti su RootsHighway, che dovrebbero interessare molto il pubblico. Le prime quattro provengono dal precedente Archeology, del 2019: la lunga Glory è una meditazione hard su base Dylan e con accenni sudisti, venata di malinconia. Si sposta sull’asse country folk, con un bel dialogo fra mandolino, banjo e fiddle la bucolica Broke, un brano di fiducia in sè tramite l’amore che nasce dalla tristezza. Più alternativa Strange, più schiettamente cantautorale, quasi "loureediana".

I quattro brani nuovi si muovono su un asse diverso: Bulletproof Man è una canzone alla Rolling stones, I am James è una dichiaraione d’amore per REM via Byrds, ma privati dei cori. Amy Jean invece sposta il solco sulla scena alterativa quasi power pop, fiume serpeggiante negli Stati Uniti che mai s’esaurisce. La nuova ballata, She, è una spettacolare versione country psichedelica di certe idee intimiste dei Beach Boys, un bel modo di riscrivere le regole della canzone più pacata. Capolavoro massimo di Archeology (e anche di questo disco) è però la riassuntiva 16 pounds of Mary: un testo chiaro, limpido e fresco, ma amaro, di fughe attraverso l’ignoto del futuro, una musica che traccia solchi stupefacenti e insoliti fra il classico e il recente, un brano per cui Neil Young mediterebbe a lungo, che si svolge su una costruzione elettroacustica ben ponderata fra le acque delle Bellows falls nel Vermont.

In tempi di crudeltà palesi, parafrasando un recente articolo del professore Franco Cardini, la voglia di fuga dalla civiltà della crudeltà in cui si vive, aumenta ispirata anche da Melchin.


    


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