Chuck Melchin pubblica questo disco a ridosso dell’autunno,
e non è coincidenza: Greatest Picks, raccolta di brani editi
e inediti della Bean Pickers Union, è una riflessione che abbraccia
quindici anni di storia di un progetto musicale di spessore, ed è riflessione
da clima autunnale. Lo avevamo perso nell’ultima uscita, quì riproposta
in quattro brani, ma questo bel disco ci offre la possibilità di scrivere
che non avevamo sbagliato. Col senno di poi, si dirà, son piene le fosse,
ma la grandezza dell’operazione di Greatest Picks è offrire
uno sguardo dal dentro del progetto, la maturazione pura. Chi ha già gli
altri dischi, perchè dovrebbe riprenderli, pur parzialmente, con questa
riedizione? Melchin ha fatto una riflessione, non un riassunto, della
sua opera e nel muro assordante della non musica contemporanea, Beans
Pickers Union risuona salutare, con piccoli difetti che lo rendono umano.
Il risultato è un super disco, uno specchio completo di sé del cantautore.
Le collaborazioni non fioccano, meccanica per la quale molti maniaci dei
nomi come garanzia comprano a scatola chiusa: quì è passato il grande
Bob Metzger (chitarrista di Leonard Cohen) e basta, lo spirito del progetto
è schiettamente autonomo e legato al territorio di provenienza di Melchin.
Si rimanda alle recensioni
pubblicate anni fa per i brani provenienti da esse, e verranno privilegiati
gli otto sconosciuti su RootsHighway, che dovrebbero interessare molto
il pubblico. Le prime quattro provengono dal precedente Archeology,
del 2019: la lunga Glory è una meditazione hard su base Dylan e
con accenni sudisti, venata di malinconia. Si sposta sull’asse country
folk, con un bel dialogo fra mandolino, banjo e fiddle la bucolica Broke,
un brano di fiducia in sè tramite l’amore che nasce dalla tristezza. Più
alternativa Strange, più schiettamente cantautorale, quasi "loureediana".
I quattro brani nuovi si muovono su un asse diverso: Bulletproof Man
è una canzone alla Rolling stones, I am James è una dichiaraione
d’amore per REM via Byrds, ma privati dei cori. Amy Jean invece
sposta il solco sulla scena alterativa quasi power pop, fiume serpeggiante
negli Stati Uniti che mai s’esaurisce. La nuova ballata, She,
è una spettacolare versione country psichedelica di certe idee intimiste
dei Beach Boys, un bel modo di riscrivere le regole della canzone più
pacata. Capolavoro massimo di Archeology (e anche di questo disco)
è però la riassuntiva 16 pounds of Mary:
un testo chiaro, limpido e fresco, ma amaro, di fughe attraverso l’ignoto
del futuro, una musica che traccia solchi stupefacenti e insoliti fra
il classico e il recente, un brano per cui Neil Young mediterebbe a lungo,
che si svolge su una costruzione elettroacustica ben ponderata fra le
acque delle Bellows falls nel Vermont.
In tempi di crudeltà palesi, parafrasando un recente articolo del professore
Franco Cardini, la voglia di fuga dalla civiltà della crudeltà in cui
si vive, aumenta ispirata anche da Melchin.