La foto dei quattro musicisti presente nel cd non
lascia spazio a dubbi, i Diesel Park West hanno tutte le rughe
dei veterani, se non proprio dei sopravvissuti, di un’altra era del rock
and roll. Not Quite The American Dream è infatti il loro decimo
album, ma noi li avevamo già riscoperti con il precedente Let
It Melt, ed è un piacere sentirli ancora vogliosi di cambi
di rotta. La band viene da Leicester, UK, città forse oggi più famosa
per un miracoloso scudetto calcistico conquistato dal nostro Claudio Ranieri
con la piccola squadra locale, ma negli anni Ottanta anche piccola fucina
di nuove band dedite al rock and roll, con Kinks e Pretty Things come
primi poster appesi in camera.
Loro stessi raccontano che, nonostante il loro primo album del 1989 (Shakespeare
Alabama) sia stato certificato al cinquantacinquesimo posto della
Billboard UK, le 150.000 copie vendute (numeri per loro incredibili, anche
in un era in cui erano la normalità) devono molto alle vendite nel mercato
universitario americano. E all’America guarda infatti questo nuovo sforzo,
e sempre prendendo i Kinks a modello: se il precedente Let It Melt
suonava un po’ come il loro Face To Face, con il suo piglio garage-rock,
qui siamo in pieno “mood” da Muswell Hillbillies, con pesanti incursioni
nel folk-rock alla Byrds e nell’americana anni 90. Il titolo dice tutto,
i Diesel Park West hanno registrato tutto nella loro città natìa, ma hanno
poi voluto coprire il risultato con la vera polvere del Texas, facendo
mixare là i brani da Salim Nourallah e John Dufilho (Apples in Stereo).
Per questo la strada in copertina sembra Austin, ma è un angolo di Leicester,
punto di partenza per una riflessione su come l’Inghilterra si sia via
via americanizzata purtroppo negli aspetti meno nobili della yankee-way-of-life.
Gone Gone Gone,
brano punta dell’album che lo stesso leader John Butler ironicamente definisce
“la migliore canzone che Ray Davies non ha mai scritto”, parla infatti
di una nazione in declino, e non solo perché il brano è stato scritto
nel pieno della pessima gestione Johnson della pandemia e dei nefasti
effetti economici della Brexit, ma proprio come spirito di nazione. Canzone
dopo canzone, infatti, Butler parla di guerre sempre meno utili ad una
nazione che guarda ancora alla politica estera con piglio colonialista
(Don’ Mention The War, Peace March), di uno spirito da battaglia
di strada sempre più difficile da ritrovare (Surrender Shuffle,
Keep On Track) e in generale della difficoltà di essere inglesi
e pure felici (Best Of You, sul sistema scolastico britannico,
One Shot Of Happiness).
Sebbene l’approccio rimanga quello energico e incattivito da band che
punta tutto su chitarre sporche e dirette, il suono è spesso infarcito
di chitarre acustiche, Rickenbecker alla McGuinn e giri aperti da cantautorato
West Coast, che danno all’album un tono decisamente rootsy, volutamente
in contrasto con i temi trattati. Insomma, Butler ci dice che l’american
dream non c’è più, ma anche il ritorno a casa a Leicester è qualcosa di
difficile da digerire per dei vecchi rocker che hanno deciso di continuare
a combattere sul palco dei pub del Regno Unito. È là che sarebbe bello
trovarli e ascoltarli, visto che l’album, con la sua produzione decisamente
live-oriented, sembra cogliere solo in parte la loro verve di esecutori.