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Don Michael Sampson
The Fall of the Western Sun
[Appaloosa 2022]

Sulla rete: appaloosarecords.it
                     donmichaelsampson.com

File Under: Il treno del tempo che va


di Gianfranco Callieri (06/05/2022)

È singolare che proprio in quest’epoca, come non mai affollata da autoproduzioni e uscite all’insegna del fai da te, entrambe in crescita non solo esponenziale ma in apparenza irreversibile (secondo una traiettoria costante di progressiva e non sempre benemerita disintermediazione tra pubblico e artisti), tante opere, soprattutto in ambito indie, sembrino mancare di spontaneità e immediatezza. Al punto da apparire non sovversive (aggettivo un tempo attribuito quasi in automatico a qualsiasi cosa sbucasse al di fuori dell’ambito major) bensì conservatrici, spesso costruite a tavolino, sin troppo ricercate, eccessivamente intellettualizzate. In tale contesto, The Fall Of The Western Sun, quattordicesimo album (se non sbaglio i conti) di Don Michael Sampson, grande e sottovalutato cantautore da anni in continuo pellegrinaggio tra New Mexico e Tennessee, spicca per la capacità di catalizzare le emozioni degli ascoltatori attraverso un dettato sonoro brusco, sbrigativo, talvolta persino grezzo e disadorno, eppure ogni volta in grado di coinvolgere e appassionare.

Con le sue ballate aspre, che iniziano e si fermano neanche spuntassero dal nulla (e solo per farvi ritorno), con le sue ruvide pennate elettroacustiche, con quei cori femminili - un marchio di fabbrica dell’artista - prelevati da una serenata anni ’70 degli Stones più zingareschi, con un armamentario di storie e ricordi da cui far decantare le rughe di una vita intera, The Fall Of The Western Sun articola il proprio linguaggio senza nessun formalismo, senza perdere tempo a «pettinare» le canzoni o a sforzarsi di dar loro un aspetto meno disordinato, ma lasciandole al contrario nude, crude, stropicciate, sanguinanti. Perfino gli esecutori dei dieci brani in scaletta, pur essendo nomi di tutto rispetto, abituati a suonare con Sampson da parecchio tempo a questa parte, vengono indicati frettolosamente, come se "chi" ha suonato "cosa" non avesse in fondo alcuna importanza.

Sappiamo, ovviamente, che musicisti quali Warren Haynes, la cui sei corde risuona qui all’insegna di un’inedita sobrietà, o Ben Keith (pedal-steel di Neil Young), il compianto Don Heffington (in passato batterista dei Lone Justice e di Bob Dylan) e il longevo Chad Cromwell (altro mostro delle bacchette), Michael Rhodes (bassista, tra gli altri, per Buddy Guy, Stevie Nicks e Bob Seger) e Paulinho Da Costa (storico percussionista brasiliano rintracciabile nell’intera discografia di Michael Jackson, giusto per capire il peso specifico dei turnisti coinvolti), non si mettono insieme per caso. Data la natura del disco, però, e dato il suo carattere ostinatamente impulsivo, non è da escludere abbiano partecipato, tutti, al piacere del (ri)mettersi in gioco lontano da liturgie e condizionamenti, manipolazioni dall’alto e budget stratosferici, alla ricerca di quel timbro speciale che solo un incontro confidenziale tra amici di vecchia data può assicurare.

A tenerne legate le gesta, d’altronde, ci pensa la scrittura di Sampson, 75 e rotti anni e un gusto incontaminato per la verbosità di un rock-folk dove s’intravedono i fantasmi di Bob Dylan, del Butch Hancock più logorroico o, per chi se lo ricorda, del Tonio K. amaro e rootsy della prima metà dei ’90, evidentissimo sia nella malinconia dell’iniziale Rolling Time Train sia nel passo leggermente più country dell’ultima Sweet Tennessee Nights. In mezzo ci sono il pigro rock-blues di Everybody’s Leaving This Old Town e il country-rock struggente della magnifica Wedding Song (con un lavoro magistrale di Da Costa che la fa sembrare una versione a spina staccata della Diamonds By The Yard di Elliott Murphy), il r’n’r ottuso di New Book e il folkeggiare incontaminato di Crimson Sparkle Of High Wind Wheels, le lettere d’amore ingiallite di Wild Rose Of Florence e la nevrastenica sfuriata younghiana (nel senso di Neil) della cupa Bad Water, l’aria «da cantina» (alla Basement Tapes) di Stop Those Tears e il robusto poema elettrico di Cast Off The Lines; e c’è, sopra a tutto il resto, uno stile essenziale e tagliente, secco e incisivo, volutamente inattuale, in equilibrio tra il nocciolo di rigorosità del country cosiddetto outlaw (quello di Kris Kristofferson in particolare) e il lirismo del rock di estrazione classica.

Non posso giurare che The Fall Of The Western Sun sia il disco migliore di Don Michael Sampson, anche perché Copper Moon (1995), Dashboard Angel (2005) e Buck Knife Tattoo (2010) ambiscono alla stessa posizione con pari dignità. Ma da parte di chi se ne stava zitto da più di un decennio, questo è un mezzo miracolo. Di vitalità e romanticismo, se non altro: merce oggi tanto rara quanto apprezzabile.


    


<Credits>