È singolare che proprio in quest’epoca, come non
mai affollata da autoproduzioni e uscite all’insegna del fai da te, entrambe
in crescita non solo esponenziale ma in apparenza irreversibile (secondo
una traiettoria costante di progressiva e non sempre benemerita disintermediazione
tra pubblico e artisti), tante opere, soprattutto in ambito indie, sembrino
mancare di spontaneità e immediatezza. Al punto da apparire non sovversive
(aggettivo un tempo attribuito quasi in automatico a qualsiasi cosa sbucasse
al di fuori dell’ambito major) bensì conservatrici, spesso costruite a
tavolino, sin troppo ricercate, eccessivamente intellettualizzate. In
tale contesto, The Fall Of The Western Sun, quattordicesimo
album (se non sbaglio i conti) di Don Michael Sampson, grande e
sottovalutato cantautore da anni in continuo pellegrinaggio tra New Mexico
e Tennessee, spicca per la capacità di catalizzare le emozioni degli ascoltatori
attraverso un dettato sonoro brusco, sbrigativo, talvolta persino grezzo
e disadorno, eppure ogni volta in grado di coinvolgere e appassionare.
Con le sue ballate aspre, che iniziano e si fermano neanche spuntassero
dal nulla (e solo per farvi ritorno), con le sue ruvide pennate elettroacustiche,
con quei cori femminili - un marchio di fabbrica dell’artista - prelevati
da una serenata anni ’70 degli Stones più zingareschi, con un armamentario
di storie e ricordi da cui far decantare le rughe di una vita intera,
The Fall Of The Western Sun articola il proprio linguaggio senza
nessun formalismo, senza perdere tempo a «pettinare» le canzoni o a sforzarsi
di dar loro un aspetto meno disordinato, ma lasciandole al contrario nude,
crude, stropicciate, sanguinanti. Perfino gli esecutori dei dieci brani
in scaletta, pur essendo nomi di tutto rispetto, abituati a suonare con
Sampson da parecchio tempo a questa parte, vengono indicati frettolosamente,
come se "chi" ha suonato "cosa" non avesse in fondo
alcuna importanza.
Sappiamo, ovviamente, che musicisti quali Warren Haynes, la cui sei corde
risuona qui all’insegna di un’inedita sobrietà, o Ben Keith (pedal-steel
di Neil Young), il compianto Don Heffington (in passato batterista dei
Lone Justice e di Bob Dylan) e il longevo Chad Cromwell (altro mostro
delle bacchette), Michael Rhodes (bassista, tra gli altri, per Buddy Guy,
Stevie Nicks e Bob Seger) e Paulinho Da Costa (storico percussionista
brasiliano rintracciabile nell’intera discografia di Michael Jackson,
giusto per capire il peso specifico dei turnisti coinvolti), non si mettono
insieme per caso. Data la natura del disco, però, e dato il suo carattere
ostinatamente impulsivo, non è da escludere abbiano partecipato, tutti,
al piacere del (ri)mettersi in gioco lontano da liturgie e condizionamenti,
manipolazioni dall’alto e budget stratosferici, alla ricerca di quel timbro
speciale che solo un incontro confidenziale tra amici di vecchia data
può assicurare.
A tenerne legate le gesta, d’altronde, ci pensa la scrittura di Sampson,
75 e rotti anni e un gusto incontaminato per la verbosità di un rock-folk
dove s’intravedono i fantasmi di Bob Dylan, del Butch Hancock più logorroico
o, per chi se lo ricorda, del Tonio K. amaro e rootsy della prima metà
dei ’90, evidentissimo sia nella malinconia dell’iniziale Rolling
Time Train sia nel passo leggermente più country dell’ultima
Sweet Tennessee Nights. In mezzo ci sono il pigro rock-blues di
Everybody’s Leaving This Old Town e il country-rock struggente
della magnifica Wedding Song (con
un lavoro magistrale di Da Costa che la fa sembrare una versione a spina
staccata della Diamonds By The Yard di Elliott Murphy), il r’n’r
ottuso di New Book e il folkeggiare incontaminato di Crimson
Sparkle Of High Wind Wheels, le lettere d’amore ingiallite
di Wild Rose Of Florence e la nevrastenica sfuriata younghiana
(nel senso di Neil) della cupa Bad Water, l’aria «da cantina» (alla
Basement Tapes) di Stop Those Tears e il robusto poema elettrico
di Cast Off The Lines; e c’è, sopra a tutto il resto, uno stile
essenziale e tagliente, secco e incisivo, volutamente inattuale, in equilibrio
tra il nocciolo di rigorosità del country cosiddetto outlaw (quello di
Kris Kristofferson in particolare) e il lirismo del rock di estrazione
classica.
Non posso giurare che The Fall Of The Western Sun sia il
disco migliore di Don Michael Sampson, anche perché Copper Moon
(1995), Dashboard
Angel (2005) e Buck Knife Tattoo (2010) ambiscono alla
stessa posizione con pari dignità. Ma da parte di chi se ne stava zitto
da più di un decennio, questo è un mezzo miracolo. Di vitalità e romanticismo,
se non altro: merce oggi tanto rara quanto apprezzabile.