Come scrive il filosofo Andrea Pinotti nel recente
Nonumento: Un paradosso della memoria (Johan & Levi, Milano, 2023),
non è più tempo di monumenti e monumentalità, di cose tendenti al grandioso
e all’imponente, alla "commozione esagerata ma dovuta". Cosa
avremmo mai di così importante da monumentalizzare, si chiede l’autore,
in un’epoca come la nostra, segnata da tutte le crisi possibili e immaginabili?
Cos’altro avremmo da monumentalizzare, vorrei aggiungere io, quando ogni
manifestazione dell’intelletto umano, ai giorni nostri, sembra già aspirare
alla dimensione dell’evento irrinunciabile, dell’opera definitiva, dell’occasione
eccezionale?
Eppure, è difficile non provare un sussulto di tenerezza davanti a chi,
anche in questo presente schizofrenicamente scisso tra superlativi assoluti
e minuscole nicchie condannate all’oblio istantaneo, tenta comunque di
offrire qualcosa in più, o di diverso, rispetto a quanto ci aspetterebbe
da un sistema in cui il cosiddetto "rischio d’impresa" è diventato
così insostenibile da richiederne l’assolvimento preventivo (vedi la pratica
esecrabile del crowdfunding) ai propri estimatori. A fare il tentativo,
questa volta, è Tom Heyman, cantautore elettrico di Philadelphia
che i più rammenteranno alla guida dei Go To Blazes, una delle migliori
e più ruvide formazioni roots-rock dei ’90 (per qualche disco almeno capace
di non far rimpiangere i Creedence o i fratelli Zanes), oppure tra le
fila dei meno noti The Court And Spark e Map Of Wyoming, e chi scrive
ricorda in un concerto ferrarese di qualche anno fa, molto stupito (e
divertito) nell’apprendere di come ben due tra le più longeve testate
musicali della penisola avessero derivato il proprio nome da altrettanti
film di Sam Peckinpah, il crepuscolare, violentissimo regista — pochissimo
celebrato e conosciuto all’interno degli Stati Uniti di cui era originario
— da lui omaggiato tra le strofe allucinate di Bloody Sam.
Dopo sei lavori solisti passati pressoché inosservati, Heyman torna a
farsi sentire con 24th Street Blues, dodici ballate sul
suo trasferimento nella costa occidentale della nazione, risalente ormai
a venti primavere or sono e culminato con l’affitto di un negozio con
vetrina - dismesso e progressivamente convertito in abitazione privata
- nel quartiere di Mission District, a San Francisco, dove il musicista
fu in grado ritrovare, dopo varie stagioni di crisi, la bohème creativa,
libertaria ma non nociva per la salute, di molte lune prima. Lo fa, e
qui sta il suo supplemento di generosità, investendo di persona nella
tiratura di un libro d’accompagnamento (non obbligatorio: il CD o l’ellepì
si possono acquistare anche senza) in forma di "innario", con
60 pagine di note e spiegazioni autografe, le intavolature dei brani,
illustrazioni a olio realizzate dalla moglie Deirdre White (che non è
una dopolavorista, bensì una docente di belle arti alle superiori e all’università).
Certo, il libro non aggiunge alcunché alla fruizione del disco, rispetto
al quale si configura come entità complementare ma non imprescindibile;
siccome, però, nelle parole dello stesso Heyman, "è il 2023 e
il mondo sembra essersi fatto più piccolo e più crudele, meno gentile,
meno premuroso e più pericoloso", constatarlo ancora abitato
da artisti indipendenti così innamorati della musica e così fiduciosi
nel proprio gesto da costruirvi intorno non già un semplice album, ma
un più articolato progetto estetico, induce all’ottimismo e alla speranza.
Al resto ci pensa il calore folkie di queste canzoni attraversate da scampoli
della biografia dell’artista e dal risuonare di chitarre a 12 corde, come
se fossimo di nuovo nei talismani del folk-rock metropolitano targato
Elektra, o nei dischi di Tom Paxton, Tom Rush, David Blue etc.
Heyman, che si definisce un East-coaster "in visita", "un
intruso" nei tornanti e nelle ripide salite di Lombard Street, si
stringe alle armonie vocali di Greg Loiacono, alla lap-steel dell’ormai
veterano Mike “Slo-Mo” Brenner e al pianoforte di Rusty Miller per passeggiare
con grazia tra il borbottìo alla J.J Cale della notturna Searching
For The Holy Ghost e il country-rock à la Byrds dell’intensa
Sonny & Jim, tra la vena psych della sognante Barbara Jean
e la cupezza elettroacustica di The Mission Is On Fire (sulla
gentrificazione del suo quartiere di residenza), tra gli intrecci unplugged
della nostalgica Quit Pretending e le sfumature gospel di una Desperate
presente all’appello in doppia versione. Il brano migliore dell’intero
24th Street Blues si intitola White Econoline,
parla di (temerari) ricordi d’infanzia e inchioda con naturalezza una
canzone d’autore tra country e blues che finisce per ricordare il diario
di viaggio minimalista articolato da Tom Petty in Highway Companion
(2006), magari con qualche idea melodica attinta dall’ultimo Dan Stuart,
e scusate se è poco.
Dicevamo, appunto, che a San Francisco, negli isolati di Mission District
o nella stessa Ventiquattresima strada non comparirà mai, si presume,
una statua equestre dedicata a Tom Heyman. Ma è il 2023, non proprio l’anno
più incoraggiante della storia recente, e dischi "piccoli" ma
ricchi di umanità come 24th Street Blues suffragano senza dubbio
la volontà di viverlo meglio.