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Tom Heyman
24th Street Blues
[Bohemian Neglect 2023]

Sulla rete: tomheymanmusic.net

File Under: We sang folk songs


di Gianfranco Callieri (28/12/2023)

Come scrive il filosofo Andrea Pinotti nel recente Nonumento: Un paradosso della memoria (Johan & Levi, Milano, 2023), non è più tempo di monumenti e monumentalità, di cose tendenti al grandioso e all’imponente, alla "commozione esagerata ma dovuta". Cosa avremmo mai di così importante da monumentalizzare, si chiede l’autore, in un’epoca come la nostra, segnata da tutte le crisi possibili e immaginabili? Cos’altro avremmo da monumentalizzare, vorrei aggiungere io, quando ogni manifestazione dell’intelletto umano, ai giorni nostri, sembra già aspirare alla dimensione dell’evento irrinunciabile, dell’opera definitiva, dell’occasione eccezionale?

Eppure, è difficile non provare un sussulto di tenerezza davanti a chi, anche in questo presente schizofrenicamente scisso tra superlativi assoluti e minuscole nicchie condannate all’oblio istantaneo, tenta comunque di offrire qualcosa in più, o di diverso, rispetto a quanto ci aspetterebbe da un sistema in cui il cosiddetto "rischio d’impresa" è diventato così insostenibile da richiederne l’assolvimento preventivo (vedi la pratica esecrabile del crowdfunding) ai propri estimatori. A fare il tentativo, questa volta, è Tom Heyman, cantautore elettrico di Philadelphia che i più rammenteranno alla guida dei Go To Blazes, una delle migliori e più ruvide formazioni roots-rock dei ’90 (per qualche disco almeno capace di non far rimpiangere i Creedence o i fratelli Zanes), oppure tra le fila dei meno noti The Court And Spark e Map Of Wyoming, e chi scrive ricorda in un concerto ferrarese di qualche anno fa, molto stupito (e divertito) nell’apprendere di come ben due tra le più longeve testate musicali della penisola avessero derivato il proprio nome da altrettanti film di Sam Peckinpah, il crepuscolare, violentissimo regista — pochissimo celebrato e conosciuto all’interno degli Stati Uniti di cui era originario — da lui omaggiato tra le strofe allucinate di Bloody Sam.

Dopo sei lavori solisti passati pressoché inosservati, Heyman torna a farsi sentire con 24th Street Blues, dodici ballate sul suo trasferimento nella costa occidentale della nazione, risalente ormai a venti primavere or sono e culminato con l’affitto di un negozio con vetrina - dismesso e progressivamente convertito in abitazione privata - nel quartiere di Mission District, a San Francisco, dove il musicista fu in grado ritrovare, dopo varie stagioni di crisi, la bohème creativa, libertaria ma non nociva per la salute, di molte lune prima. Lo fa, e qui sta il suo supplemento di generosità, investendo di persona nella tiratura di un libro d’accompagnamento (non obbligatorio: il CD o l’ellepì si possono acquistare anche senza) in forma di "innario", con 60 pagine di note e spiegazioni autografe, le intavolature dei brani, illustrazioni a olio realizzate dalla moglie Deirdre White (che non è una dopolavorista, bensì una docente di belle arti alle superiori e all’università).

Certo, il libro non aggiunge alcunché alla fruizione del disco, rispetto al quale si configura come entità complementare ma non imprescindibile; siccome, però, nelle parole dello stesso Heyman, "è il 2023 e il mondo sembra essersi fatto più piccolo e più crudele, meno gentile, meno premuroso e più pericoloso", constatarlo ancora abitato da artisti indipendenti così innamorati della musica e così fiduciosi nel proprio gesto da costruirvi intorno non già un semplice album, ma un più articolato progetto estetico, induce all’ottimismo e alla speranza. Al resto ci pensa il calore folkie di queste canzoni attraversate da scampoli della biografia dell’artista e dal risuonare di chitarre a 12 corde, come se fossimo di nuovo nei talismani del folk-rock metropolitano targato Elektra, o nei dischi di Tom Paxton, Tom Rush, David Blue etc.

Heyman, che si definisce un East-coaster "in visita", "un intruso" nei tornanti e nelle ripide salite di Lombard Street, si stringe alle armonie vocali di Greg Loiacono, alla lap-steel dell’ormai veterano Mike “Slo-Mo” Brenner e al pianoforte di Rusty Miller per passeggiare con grazia tra il borbottìo alla J.J Cale della notturna Searching For The Holy Ghost e il country-rock à la Byrds dell’intensa Sonny & Jim, tra la vena psych della sognante Barbara Jean e la cupezza elettroacustica di The Mission Is On Fire (sulla gentrificazione del suo quartiere di residenza), tra gli intrecci unplugged della nostalgica Quit Pretending e le sfumature gospel di una Desperate presente all’appello in doppia versione. Il brano migliore dell’intero 24th Street Blues si intitola White Econoline, parla di (temerari) ricordi d’infanzia e inchioda con naturalezza una canzone d’autore tra country e blues che finisce per ricordare il diario di viaggio minimalista articolato da Tom Petty in Highway Companion (2006), magari con qualche idea melodica attinta dall’ultimo Dan Stuart, e scusate se è poco.

Dicevamo, appunto, che a San Francisco, negli isolati di Mission District o nella stessa Ventiquattresima strada non comparirà mai, si presume, una statua equestre dedicata a Tom Heyman. Ma è il 2023, non proprio l’anno più incoraggiante della storia recente, e dischi "piccoli" ma ricchi di umanità come 24th Street Blues suffragano senza dubbio la volontà di viverlo meglio.


    


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