A due anni di distanza da American Silence,
disco acustico che ha ottenuto ottime recensioni portandolo ad incarnare
pienamente la figura di folksinger ‘di protesta’, il californiano Chris
Pierce cambia rotta, almeno dal punto di vista musicale, con un lavoro
che abbraccia suoni decisamente più soul, concedendosi comunque più di
una ‘divagazione’. Inciso negli storici Sunset Sound Studios di Los Angeles
sotto la produzione di Niko Bolas (già alla consolle per Neil Young, Warren
Zevon, Melissa Etheridge e i Mavericks tra gli altri) e Dave Resnik (Mavis
Staples è tra coloro con cui ha lavorato), Let All Who Will è
un album lungo ed articolato attraverso ben quindici brani che denotano
tutta la profonda umanità ed empatia di Chris Pierce, la sua voce ricca
di feeling e notevoli capacità compositive, capaci di condensare temi
universali come quelli legati ai diritti civili e narrazioni più intime
e personali.
Un messaggio il suo non annacquato da canzoni apparentemente più modulate
e ‘morbide’, ma che riesce a penetrare maggiormente grazie a liriche che
sottolineano il bisogno di giustizia e di immedesimazione per comprendere
quanto ci sia di importante nelle lotte sociali di coloro che sono emarginati
per colore della pelle, religione e orientamenti sessuali. Nulla di particolarmente
nuovo dal punto di vista stilistico, ma ineccepibile per forza espressiva,
convinzione e grinta che emergono nitide in molti momenti dell’album come
per esempio nell’introduttiva Batten Down The
Hatchet, ballata folk-rock guidata da un ottimo violoncello.
Ci si può accostare in più di un momento al lavoro che sta facendo, sulla
stessa falsariga, un altro bel nome che unisce folk, soul e blues come
Eric Bibb e in canzoni come Mr. McMartin e We Can Always Come
Back To This in particolare si respira la stessa atmosfera.
Meet Me At The Bottom rimanda ad un’altra voce che probabilmente
ha ispirato il nostro come Arthur Alexander, 45 Jukebox è decisamente
pregna di umori ‘swamp’ con chitarra slide (Doug Pettibone, dalla band
di Lucinda Williams) e armonica che impreziosiscono uno dei momenti a
mio parere più incisivi, mentre in Tulsa Town si uniscono con sagacia
folk e soul. A rendere ulteriormente varia la proposta ci sono poi le
attenzioni jazzy della pianistica Sidney Poitier, la sorprendente
cover di Drive, vecchio hit dei Cars di Ric Ocasek, la riuscita
rilettura della title-track del precedente American Silence qui
arrangiata con misura ed efficacia e la mossa Home con un andamento
frizzante e azzeccato.
Un album questo che ben definisce i contorni di un artista poliedrico
e genuinamente autentico.