Qual è il destino dei cantautori di razza in un
mondo in cui i cd non si vendono più, i testi non si leggono, non c’è
interesse o curiosità nel messaggio che le canzoni portano e i concerti
o sono dei mega eventi da folle oceaniche (dove non si ascolta musica
ma si segna la presenza, possibilmente in diretta Facebook) oppure eventi
dove non si riesce nemmeno a tirare su due date nel bar di paese? E’ vero
che questo succedeva anche in passato, basti pensare ai vari Dave Van
Ronk o ai Rodriguez, riscoperti solo anni dopo grazie a Hollywood. Ma
negli stessi anni nascevano e crescevano anche Bob Dylan, Van Morrison,
Tom Waits. Adesso che fine farebbero? Sarebbero acclamati come giganti
della musica e della letteratura o sarebbero all’angolo della strada a
tirare su due spicci in una custodia di chitarra?
Cantare della provincia americana blue-collar più remota ha senso oggi
che siamo tutti connessi, dall’Alaska al Saskatchewan, così come aveva
senso quando lo faceva John Fogerty negli anni ‘60 e il telefono in casa
era un lusso? Domande retoriche ovviamente, ma si affacciano alla nostra
mente ogni volta che un attempato songwriter, dotato e sconosciuto ai
più, come David G Smith, si presenta con un nuovo lavoro discografico.
Nativo dell’Iowa, ma trapiantato nella capitale della musica americana,
Nashville, David Smith pubblica un nuovo album nel 2023, Witness
Trees. Il suo stile è un mix di acustico, roots, slide, blues,
americana e country con ovviamente focus sui testi e sulla cura degli
arrangiamenti. Ha vinto premi, la critica (quale? non è dato saperlo)
ha lodato i suoi lavori, artisti più famosi come Mary Gauthier e Keb Mo’
hanno preso parte ai suoi dischi solisti, che al momento sono sostanzialmente
sette, pubblicati dal 2011 in poi, anche se Smith è nel “giro” dagli anni
‘70 con altre band.
Undici brani in tutto, che vanno dal cantautorato più classico a sfondo
sociale (Women Are Not Equal, Gone, None of Em Dead,
Witness Trees), all’Americana (To Be Human, Give Us Free,
Some Love) a canzoni influenzate dal blues più swampy e sudista
(River Gonna Talk, Weight You Carry), ma anche influenze
caraibiche, come nella canzone di chiusura I Wanna Go Out (che
ricorda vagamente il Tom Waits di Rain Dogs). Tutte canzoni di
precisione impeccabile, sia musicalmente che dal punto di vista dei testi,
brani che trasudano mestiere ed esperienza. I proventi dei suoi lavori
vengono devoluti in cause benefiche e questo ci rende il personaggio ancora
più simpatico. Un underdog (non lo siamo forse un po’ tutti?) di
cui non sentiremo molto parlare a meno che i fratelli Coen ad un certo
punto non decidano di dedicargli un film.