Qui in Italia, con la lodevole eccezione del sito
che state leggendo, non lo conosce nessuno. Non molti di più lo conoscono
all’estero, soprattutto per la terra bruciata radunatasi intorno a lui
dopo una truffa perpetrata ai danni di amici e conoscenti, all’inizio
dello scorso decennio, per la quale si era beccato quattro anni di carcere.
Ne scontò due, ma erano gli anni di una riabilitazione intensiva (conseguenza
di una diagnosi di disturbo bipolare severo), di un matrimonio difficile
e sofferto (nondimeno ancora in piedi), di una paternità tormentata (ma
accolta come una resurrezione personale) e soprattutto della progressiva,
inesorabile demenza in cui andava inabissandosi il padre, alla fine passato
a miglior vita nel 2020, proprio quando queste canzoni iniziavano a prendere
forma.
Eppure, Kasey Anderson ha continuato a suscitare il plauso incondizionato
di molti colleghi, da Jason Isbell a Steve Earle, fino ai Counting Crows,
a tal punto entusiasti delle sue composizioni da inserirne la Like
Teenage Gravity del 2010 nella (strepitosa) cornucopia di omaggi alla
scrittura altrui di Underwater
Sunshine. Quella canzone proveniva da Nowhere Nights, e secondo
Anderson il nuovo To The Places We Lived ne costituirebbe
il sequel, sia in termini di confezione sonora (all’insegna di un cantautorato
elettrico minimalista e bruciante) sia dal punto di vista dell’ispirazione
(innescata dalla voglia di ritrovare l’immediatezza delle audiocassette
di Tom Petty e Bruce Springsteen ascoltate, una vita fa, nei viaggi in
macchina col papà).
Stando alle dichiarazioni dell’autore, si tratterebbe anche del suo ultimo
album, ma qui non sappiamo se a parlare sia la coscienza dell’artista,
magari consapevole di aver dato il possibile, o la ciclotimia del neurodivergente.
Sarebbe comunque un peccato se To The Places We Lived concludesse
la carriera del suo artefice, perché sebbene ci siano voluti vent’anni
di alti e bassi per sopraggiungere a un risultato così efficiente, omogeneo
e incisivo, dischi di questa levatura - tardi e imprevedibili frammenti
di un ventesimo secolo che continua ad appassire in un oceano di malinconia
- già ci mancano oggi, mentre di qui a qualche stagione finiremo per ricordarli
con nostalgia inguaribile e pungente. Con questo, non sto attribuendo
all’opera numero otto di Anderson (nel conto sono inclusi i progetti collaterali
di Honkies e Hawks
& Doves) la patente di "capolavoro". Non lo è; non possiede,
dei capolavori, le varie, particolari e irripetibili caratteristiche.
Ma è, appunto, un ottimo disco "medio", come si usava un tempo,
quando l’urgenza di essere definitivi non era all’ordine del giorno e
attraverso una serie di canzoni rock perfettamente congegnate si poteva
raccontare, se non la Vita stessa, qualche vita ai margini, qualche storia
minore, qualche punto di vista personale.
Dal magistrale, solenne passo folkie dell’iniziale Beginners
alle unghiate blues della strepitosa Back To
Nashville, dal folk-rock in purezza di una Ellensburg
della quale sarebbe andato orgoglioso il compianto Greg Trooper al tenore
rockista della luminosa Readynow, dall’autunno del cantautore illustrato
nell’incantevole The Lost Parade al
feroce rock & roll della sferzante Paint It Gold,
fino ai rintocchi di pianoforte dell’austera Start Again e allo
splendido duetto con Matthew Ryan della sofferta Leave
An Echo, non c’è, nella scaletta di To The Places We Lived,
una sola nota fuori posto, o un colpo a vuoto che possa metterne in discussione
l’intreccio di sottrazioni esecutive nel quale scorrono tracce di Bruce
Springsteen, Lou Reed, Gary Louris e altri decani dell’arte difficile
di scrivere brani, apparentemente immobili, dove accade però di tutto.
Una volta arrivati ai quasi dieci minuti dell’ultima, bellissima title-track,
ecco Anderson aprirsi al tumulto sconvolgente e inebriante di un freewheelin’
dylaniano articolato come momento del distacco, dell’addio alla gioventù
e dell’ingresso in una maturità tanto complicata e irregolare quanto,
in fondo desiderata. È in questo brano indimenticabile che To The
Places We Lived trova il suo tema poetico più vero e generoso:
l’indulgenza verso gli errori del passato e l’affetto verso i luoghi in
cui gli errori di una vita intera hanno finito per compiersi, il corso
veloce di un’esistenza senza risarcimenti e senza retromarce. E infine,
il doloroso ma inevitabile congedo dagli inganni e dalle illusioni degli
anni più sciocchi, più veri e più belli. Non saprei cos’altro chiedere,
in tutta sincerità, a un disco "rock" uscito nel 2024, e non
sapendo cosa chiedere, dico a me e suggerisco a voi di limitarsi, semplicemente,
ad ascoltare.