Prima di mettermi a scrivere queste righe, ho provato
a interrogare l’archivio di RH scoprendo, con imbarazzo, di essermi occupato
spesso del nostro Chip Taylor e di averlo fatto, per di più, in
linea di massima liquidandolo come ipertrofico (nel numero delle uscite)
e indisponente (nella monotonia espressiva). Al fatto di essere, io, un
pomposo imbecille, purtroppo non c’è rimedio, ma avendo riascoltato (quasi
tutti) gli album dell’autore, perlomeno quelli pubblicati sotto l’egida
della sua Train Wreck, posso dire di aver messo nero su bianco le emerite
sciocchezze in cui s’inciampa quando si ascoltano troppe cose e lo si
fa troppo velocemente, senza prestare la dovuta attenzione.
Perché se non vi piace la musica americana, allora c’è poco da fare (e
state probabilmente compulsando il sito sbagliato), mentre nel caso opposto,
se siete affezionati, insomma, all’idea popolare della canzone come racconto
di sé e del respiro una nazione, be’, in tal caso è giusto sappiate che
esistono poche carriere qualificate dalla coerenza, dai risultati e dalla
continuità di quella di Taylor. Soprattutto se, in mezzo ai fisiologici
alti e bassi di una produzione comunque fluviale, riuscite a trovare il
tempo, la pazienza e le condizioni d’ascolto necessarie affinché le sfumature
di senso, la costante malinconia rootsy, il lento e sapiente articolarsi
delle melodie, dei versi e delle strofe, riescano infine a conquistare
la vostra attenzione, a radicarsi nei vostri ascolti per non uscirne più.
Dischi, giusto specificare anche questo, tutti bellissimi e uguali, tutti
confezionati all’insegna di un linguaggio folk-rock piuttosto scarno (benché
in genere vivacizzato da qualche misurato intervento strumentale da parte
di esecutori di prim’ordine), tutti riguardanti le contraddizioni e gli
splendori del mondo circostante, tutti caratterizzati da prestazioni vocali
afferenti alla dimensione non del canto in senso proprio, ma a un ruvido
talkin’ senza alcun abbellimento.
Nato a New York nel 1941, Chip Taylor (al secolo
James Wesley Voight, fratello dell’attore Jon e quindi zio di Angelina
Jolie) ha dato alle stampe, dal ’96 a oggi, più di 20 lavori diversi (e
sicuramente ne ho perso qualcuno). Trent’anni fa veniva dall’essersi cimentato,
nei ’70, con l’attività di cantautore (con la quale non aveva ottenuto
alcun successo, per sé, pur avendone riscosso moltissimo grazie alle interpretazioni
dei colleghi) e dall’avervi rinunciato per dedicarsi, da professionista,
al gioco d’azzardo. Si era rimesso a cantare per dare conforto ai giorni
estremi della madre Barbara, allora morente, prendendoci poi abbastanza
gusto da siglare un contratto di distribuzione con la Gadfly - minuscola
sebbene ancora attiva etichetta del Vermont - prima di mettere in piedi
una casa discografica autogestita.
Tutto questo per sottolineare come in Behind The Sky non
troverete nulla di diverso rispetto ai lavori precedenti, se non le condizioni
del suo artefice al momento di realizzarlo, ovvero nelle settimane seguenti
alla dimissione dall’ospedale in cui gli era stato trattato con successo,
tramite chemioterapia e radiazioni, un tumore alla gola potenzialmente
letale. Siccome, tuttavia, per uno come Taylor le difficoltà del vivere
non sono solo impedimenti ma fonti d’ispirazione, ecco l’intero progetto
trasformarsi, poco alla volta, in una struggente dichiarazione d’amore
per la presenza della moglie Joan (appunto la Nurse
Joan, "l’infermiera Joan", del brano omonimo), per
i dottori capaci di salvargli la vita (tutti ringraziati all’inizio di
George In Radiation), per i musicisti al suo fianco da anni (mai
chiamati per nome, nelle canzoni, così spesso, soprattutto quel John Platania
la cui sei corde ha spesso campeggiato sui dischi di Van Morrison), per
le persone scomparse (la genitrice di Momma Was The Queen, il John
Prine citato in lungo e in largo) e per quelle ancora presenti (tutti
i consanguinei e conoscenti di Hey Skip Along With Me).
Dai cori domestici dell’ultima traccia alla tenerezza dai contorni gospel
di If A Door Slams In Prison, dalla
gratitudine spirituale dell’intensa The Blessing all’incedere soffice
e jazzato di Without Hearing, dai ricordi d’infanzia di Other
Side Of The Moon al folk elettroacustico della stupenda Speakin’
Of Horses, col suo dialogo tra pianoforte e chitarra elettrica,
non un solo passaggio di Behind The Sky deroga alla volontà di
ricostruire, dalle macerie della vita quotidiana, una via di serenità
lastricata da valori e relazioni. E cos’altro dovrebbe fare, in fondo,
un linguaggio musicale come quello del folk-rock, per sua natura attento,
più di altre forme d’espressione, all’immaginazione, ai sogni e alla fantasia?
La scrittura di Chip Taylor si conferma in grado di parlare e consolare
(in senso etimologico: "stare con chi è solo") non solo gli
estimatori, ma anche e soprattutto i neofiti. Perciò, per quel che può
contare, sarei felice se questa recensione valesse come lettera di scuse
e di stima incondizionata.