Pensavamo di esserci ormai lasciati alle spalle
la grande messe di album nati dentro la bolla della pandemia e gioco forza
“ispirati” da quel collettivo isolamento provato dall’intera umanità,
ma ancora qualche strascico si fa sentire, se è vero che il qui presente
Greener Fields & Fairer Seas, secondo lavoro di John
Calvin dopo l’esordio del 2018 Masquerade Monday, ha iniziato
a prendere forma proprio in quel periodo. Dal 2020 all’alba di questo
nuovo anno è trascorsa un’eternità e la cura e la pazienza con le quali
è stato confezionato il disco dicono molto del lavoro svolto da Calvin
insieme al produttore Nate Campisi negli studi di quest’ultimo a Pittsburgh,
PA, costruendo un suono da folk-rock d’autore, dove chitarre, pedal steel
(addirittura due in sessione), sax, tromba e violino cercano ogni volta
una sfumatura o un dettaglio per sostenere la vena prevalente di John
Calvin, songwriter dalla penna poetica e letteraria, ma tendente a struggersi
in canzoni dal tono malinconico.
I suoni sono quelli giusti, non c’è dubbio, dalla partenza intrisa nel
soul e in certo roots rock da East Coast di Rest
of My Roads alla drammaticità western di Austin Chalk,
fino alla scelta del singolo She Might Be A Song,
ballata dolente e rarefatta che insieme alla più elettrica e sudista Saint
Innocent che la precede, costituisce un dittico dedicato da Calvin
alla tragica scomparsa della moglie di un caro amico per una forma aggressiva
di tumore. Quello che funziona meno sono proprio le canzoni in sé, liricamente
profonde (come non prendere in simpatia un musicista che dedica Ode
to Denis Johnson all’omonimo scrittore?) ma tutte un po’ azzoppate
dalla mancanza di un guizzo o di una rivelazione melodica.
Probabilmente ci mette del suo anche la stessa capacità interpretativa
di John Calvin, frenato da una voce in affanno (ce ne accorgiamo nei passaggi
più accesi e rock, come Gravity, ma anche nelle trame “vanmorrisoniane”,
complice il sax di Eric DeFade, di Garden State Variety) che vorrebbe
tradurre tutta l’intensità della sua scrittura, in gran parte dedicata
alla maturità della vita, della famiglia e della cura dei figli, in una
forma di ballata rock rapita dalla potenza di chitarre e archi. Accade
nell’enfatica Our Souls Have Broken Chain, l’episodio più politicamente
esplicito della raccolta, rievocando quest’ultimo l’assalto neo-nazista
di Charlottesville in Virginia che fece una vittima tra la folla pacifica
in protesta, e così si ripete nel finale di Shenandoah, classico
della tradizione folk americana qui caricato di una ruggine rock che francamente
non sembra rendere giustizia alla melodia originale.
Calvin, musicista dall’animo errante - figlio di un militare e sballottato
fin dall’infanzia per mezzo mondo, prima di stabilirsi in Florida con
la famiglia - ha sviluppato un’indubbia qualità di osservatore che si
traduce nei suoi testi, ma da qui a trasformarli in grandi canzoni il
passo pare ancora lungo e forse non gli rende neppure un gran servizio
tentare, come fanno le note stampa, di accostarle ai più disparati colleghi
(da Bill Callahan a Kevin Morby, Springsteen e Jeff Tweedy ci sono un
po’ tutti e spesso a sproposito). Diciamo allora che la solidità dell’autore
c’è tutta, manca ancora il resto e non è poco.