Alla lettura del nome del gruppo, mi ero fatto un’idea
sbagliata dei Thee Holy Brothers. Pensavo di essere in procinto
di ascoltare uno di quegli ensemble country religiosi dalle ascendenze
folk, magari originari della Bible Belt, di quel profondo Sud americano
un po’ bigotto. Invece siamo di fronte ad un duo californiano, di base
in quel di Los Angeles, formato da Marvin Etzioni e Willie Aron. Se l’album
High in My Balloon rappresenta il loro secondo lavoro col
moniker Thee Holy Brothers (spiazzante anche perché i due non hanno alcun
legame di parentela), entrambi sono però dei veterani della scena musicale
di L.A., della quale fanno parte attivamente da oltre quarant’anni.
Marvin Etzioni è stato tra i fondatori (e membro fra l’83 e l’86) di quegli
unsung heroes dell’Americana che sono stati i Lone Justice, mentre
Willie Aron ha militato nei The Balancing Act, gruppo difficilmente catalogabile
(area indie-folk) che ha pubblicato un paio di album nella seconda metà
degli anni ‘80, il secondo dei quali per la gloriosa I.R.S. Records, label
che vantava un catalogo variegato ed affascinante (vedi ad esempio i Wall
Of Voodoo). In questo album, Marvin Etzioni è l’autore di tutti i brani
ed è anche il fondatore della label che lo pubblica, Regional Records.
Ma Etzioni è anche multistrumentista ed è colui che suona quasi tutti
gli strumenti (basso, batteria, chitarre assortite), oltre ad accompagnare
alla voce il sodale Willie Aron, che contribuisce occasionalmente al basso
ad alle tastiere.
Se non mancano accenni a sonorità country e folk, mi pare però che l’atmosfera
generale sia più orientata ad un pop venato di psichedelia tipico della
metà degli anni Sessanta. In particolare i brani iniziali, Born Torn
e The Holy In Everything, con le loro armonie vocali e le chitarre
cristalline, sembrano ispirarsi ai Byrds o anche ai Beach Boys. Addirittura
il brano Guru Honk, con l’incipit
di clacson, mi ricorda la naïveté dei gruppi dell’epoca d’oro dell’Hot
Rod (contraltare “terrestre” della musica surf). Le chitarre si fanno
poi un po’ più elettriche e (quasi) ruggenti in Sunshine
In My Veins e nella successiva Magic Jacket, ma sempre
ad accompagnare le voci dei due sodali in coro.
Nella seconda parte dell’album i ritmi rallentano leggermente e gli arrangiamenti
si fanno più scarni, lasciando affiorare atmosfere più acustiche e roots,
come in I Am Time. Non mancano comunque degli accenni alla psichedelia,
ad esempio nel brano Emily Parade,
che sono dati dalle orchestrazioni e dall’assortimento di tastiere (celeste,
Clavioline, Hammond) messe in campo. Nel complesso si tratta di un lavoro
ben riuscito e piacevole, che conferma la statura e l’eclettismo dei due
protagonisti.