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Thee Holy Brothers
High in My Balloon
[Regional Records 2025]

Sulla rete: theeholybrothers.com

File Under: meet me in L.A.


di Pierpaolo Tinelli (11/06/2025)

Alla lettura del nome del gruppo, mi ero fatto un’idea sbagliata dei Thee Holy Brothers. Pensavo di essere in procinto di ascoltare uno di quegli ensemble country religiosi dalle ascendenze folk, magari originari della Bible Belt, di quel profondo Sud americano un po’ bigotto. Invece siamo di fronte ad un duo californiano, di base in quel di Los Angeles, formato da Marvin Etzioni e Willie Aron. Se l’album High in My Balloon rappresenta il loro secondo lavoro col moniker Thee Holy Brothers (spiazzante anche perché i due non hanno alcun legame di parentela), entrambi sono però dei veterani della scena musicale di L.A., della quale fanno parte attivamente da oltre quarant’anni.

Marvin Etzioni è stato tra i fondatori (e membro fra l’83 e l’86) di quegli unsung heroes dell’Americana che sono stati i Lone Justice, mentre Willie Aron ha militato nei The Balancing Act, gruppo difficilmente catalogabile (area indie-folk) che ha pubblicato un paio di album nella seconda metà degli anni ‘80, il secondo dei quali per la gloriosa I.R.S. Records, label che vantava un catalogo variegato ed affascinante (vedi ad esempio i Wall Of Voodoo). In questo album, Marvin Etzioni è l’autore di tutti i brani ed è anche il fondatore della label che lo pubblica, Regional Records. Ma Etzioni è anche multistrumentista ed è colui che suona quasi tutti gli strumenti (basso, batteria, chitarre assortite), oltre ad accompagnare alla voce il sodale Willie Aron, che contribuisce occasionalmente al basso ad alle tastiere.

Se non mancano accenni a sonorità country e folk, mi pare però che l’atmosfera generale sia più orientata ad un pop venato di psichedelia tipico della metà degli anni Sessanta. In particolare i brani iniziali, Born Torn e The Holy In Everything, con le loro armonie vocali e le chitarre cristalline, sembrano ispirarsi ai Byrds o anche ai Beach Boys. Addirittura il brano Guru Honk, con l’incipit di clacson, mi ricorda la naïveté dei gruppi dell’epoca d’oro dell’Hot Rod (contraltare “terrestre” della musica surf). Le chitarre si fanno poi un po’ più elettriche e (quasi) ruggenti in Sunshine In My Veins e nella successiva Magic Jacket, ma sempre ad accompagnare le voci dei due sodali in coro.

Nella seconda parte dell’album i ritmi rallentano leggermente e gli arrangiamenti si fanno più scarni, lasciando affiorare atmosfere più acustiche e roots, come in I Am Time. Non mancano comunque degli accenni alla psichedelia, ad esempio nel brano Emily Parade, che sono dati dalle orchestrazioni e dall’assortimento di tastiere (celeste, Clavioline, Hammond) messe in campo. Nel complesso si tratta di un lavoro ben riuscito e piacevole, che conferma la statura e l’eclettismo dei due protagonisti.



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