Sono almeno una decina d’anni che Jesse Welles
ci sta provando. Forse l’idea di avere finalmente assunto il suo nome
di battesimo, senza ricorrere a scorciatoie, pseudonimi e band sotto mentite
spoglie, avrà i suoi effetti, essendo la pubblicazione di The Middle
una delle novità più attese della primavera, quanto meno nel sottobosco
indipendente della giovane scena Americana, dopo una serie di singoli
a ripetizione, pubblicati sulla rete e nei canali social nelle ultimi
due stagioni, hanno fatto emergere la figura di questo trentenne songwriter
originario dell’Arkansas.
Andando con ordine, ma non sarà facile, Welles è partito addirittura nel
2012 con una lunga serie di dischi autoprodotti sotto la sigla Jeh Sea
Wells, ha nel frattempo formato due gruppi paralleli, Dead Indian e Cosmic-American
(un nome che tradisce qualche influenza…), si è poi deciso ad accorciare
il tutto in un semplice Welles, partendo alla volta di Nashville (che
novità!) e firmando un contratto come autore e musicista per un’importante
etichetta, fino a lavorare per un breve periodo con il premiato produttore
Dave Cobb, per la realizzazione di Red Trees and White Trashes.
Quell’album non è finito da nessuna parte, le speranze sono crollate e
il nostro Jesse è tornato nell’Akansas a rimuginare sulla prossima mossa,
pensado addirittura di farla finita con la chitarra e le canzoni.
Piano piano sono arrivate le folk song istantanee, i video e i singoli
di natura virale che hanno spopolato e attirato tutte le attenzioni (e
anche i sospetti) possibili: da Walmart a War Isn't Murder,
passando per Cancer, United Health e Amazon Santa Claus,
il gesto era forse un po’ naif, ma le intenzioni "politiche"
ben chiare, un commento a base di chitarra e voce che ha naturalmente
rispolverato una scia di luoghi comuni sulla “canzone di protesta”, e
naturalmente gli ennesimi, fuorvianti, insostenibili paragoni con Bob
Dylan. A sentire il violino che accompagna il brillante folk rock di Horses,
apertura del qui presente The Middle, più di un sospetto
che il nostro Jesse abbia ascoltato Desire c’è, ma la novità è
che l’album, prodotto dall’esperto Eddie Spear (c’è lui dietro il successo
di altri giovani stelle come Sierra Ferrell e Zach Bryan), prende un’altra
piega rispetto alle “novelty song” del recente passato, parla ancora di
società americana, religione, guerra, ma con lo sguardo rivolto a se stesso,
alle proprie inquietudini.
Meglio così, perché Jesse Welles potrebbe uscire dalla bolla mediatica
e dal chiacchiericcio del suo “nuovo” folk, per offrire invece un piccolo
disco che viaggia sui ritmi di un frizzante rock’n’roll dall’aria rootsy
ed elettro-acustica, dove ogni brano o quasi possiede quell’aria accattivante,
un po’ da Tom Petty di campagna, dal precipitare di Certain
all’insistenza di I’m Sorry, dal ruzzolare di Wheel al fischiettio
sbarazzino di Anything But Me fino
al forte accento rurale di Every Grain of Sand (e allora Jesse
lo fai apposta! Ma si tratta soltanto di una omonimia con la canzone di
Dylan). Le pause strettamente acustiche, legate allo stile del recente
passato, sono riservate a Simple Gifts e alla stessa The Middle,
title track che chiude un percorso assai più vivace, anche con tutte le
inguenuità liriche del caso, ma senza risparmiarsi nell’interpretazione,
con quella voce che tiene agganciati, si increspa e soffre fino a spezzarsi
in Fear is the Mind Killer e Why Don’t
You Love Me, prima di lanciarsi a rotta di collo con il folk’n’roll
tutto fremiti di Rocket Man e War
is God.
Agile, immediato e pop nelle migliori intenzioni, conservando tuttavia
l’anima di un folksinger cresciuto nel cuore della provincia, The Middle
colloca il nome di Jesse Welles sulla grande mappa dell’Americana:
ora sta a lui decidere, magari con una decisiva spinta della fortuna,
che rotta mantenere da qui ai prossimi traguardi.