È lo stesso Beck a sancire espressamente il legame di sangue tra il nuovo
Morning Phase, disco che segna il debutto discografico per la Capitol,
e il suo precedente "esperimento" nel campo della canzone folk più austera, quel
Sea Change che aveva affascinato e sorpreso tra malinconie acustiche degne di
un Nick Drake ed eleganti orchestrazioni. Anche la squadra dei musicisti raccolti
intorno a sé non lascia spazio a dubbi: il chitarrista Smokey Hormel, Justin Meldal-Johnsen
al basso, le tastiere di Roger Joseph Manning Jr. e i tamburi di Joey Waronker,
backing band che ha fatto da contraltare ad alcune recenti uscite del musicista
californiano, sono un trait d'union alla luce del sole, così come la mano raffinata
del padre David Campbell negli arrangiamenti sontuosi per archi, che di tanto
in tanto avvolgono, con ricercata grazia, le ballate dell'album. Interrompendo
un silenzio di cinque anni da Modern Guilt, faccia più sperimentale e pop del
Beck autore che non aveva suscitato grandi entusiasmi, in verità trascorsi fra
mille impegni (singoli sparsi e soprattutto le interessanti produzioni per Stephen
Malkmus e Thurston Moore), Morning Phase si riappropria di quella componenente
classica che da sempre cova sotto l'immagine più "d'avanguardia" dell'artista.
Esplicitamente ispirato, come ammette Beck, da una dieta musicale californiana,
dove Byrds (ne trovate vaghi riflessi in Blackbird Chain),
Crosby Stills and Nash, Neil Young, il country cosmico di Gram Parsons e la delicata
psichedelia del David Crosby solista sembrano essergli apparsi sulla strada quali
muse ispiratrici, sempre affascinato dallo spleen folk del citato Nick Drake (l'impalpabile,
lucente Turn Away) e aggiungendovi delicati
spunti pop che sembrano sbucare dal songbook del John Lennon più elegiaco, Beck
ha realizzato un ciclo di canzoni dal fascino sottile ed etereo, che entrano in
circolo come una tenue brezza. È un Beck confessionale e a cuore aperto quello
che si presenta a noi in queste tracce, fra sospiri e languori mattutini appunto,
introdotti e inframmezzati dalle magniloquenti orchestrazioni di Cycle
e Phase, tendenza che tocca il suo apice con l'accopiata di Unforgiven
e Wave, quest'ultima per sola voce e archi,
passando quindi in rassegna il terso folk cameristico di Morning
e il leggiadro soffio pop, degno di un Brain Wilson, in Heart
is a Drum, tra i brani armonicamente più ambiziosi di un disco altrimenti
contrassegnato da una serenità musicale all'apparenza quasi giocata in sottrazione.
In verità, sono moltissimi i dettagli che balzano in superficie dopo un
ascolto ripetuto: è il mood giusto quello che ci chiede di abbracciare Beck e
una volta acciuffato si rivela in tutta la richezza melodica nascosta dal sound
ovattato di Blue Moon e Blackbird Chain,
nel finale beatlesiano di Waking Light, episodi
che contrastano dolcemente con l'anima più folkie di Morning Phase, rappresentata
dal volteggiare pigro di Say Goodbye, con un soffuso banjo a spargere semi
di tradizione, oppure dalla strepitosa Country Down,
uscita direttamente da una session di Harvest (Neil Young). Canzoni nate lontano,
alcune concepite in origine persino nel 2005, in buona parte riviste e catturate
in tre giorni di registrazioni a Los Angeles lo scorso anno: Beck si è rimesso
in corsa e sopratutto ha trovato ancora linfa vitale nel volto più pacato e minimalista
del suo songwriting, con un talento compositivo innato.