Misteriosa e desertica quanto basta per iscriverli alla scuola del grande rock
di frontiera, la musica dei DeSoto Caucus rivendica legittimamente un posto
in prima fila, dopo anni di ispirato lavorio nella retroguardia del genere. Allargati
definitivamente a quintetto, questi musicisti danesi di Aarhus si ritrovano alla
seconda uscita internazionale (l'esordio per la Glitterhouse nel 2013 con l'interessante
Offtramp Rodeo)
con una precisa raffigurazione del loro suono, modellato secondo la lezione di
Howe Gelb e dei Giant Sand, dei Calexico o dei Friends of Dean Martinez, insomma
di quella linea epica e sabbiosa che attraversa spesso l'Arizona. D'altronde,
come potrebbe essere altrimenti per degli strumentisti che hanno accompagnato
lo stesso Gelb nelle sue più recenti uscite soliste e nella stessa riformulazione
dei Giant Giant Sand (con la splendida "desert opera" di Tucson), nonché
partner ideali nei tour di Kurt Wagner (Lambchop), Scoutt Niblett e della coppia
Isobel Campbell/ Mark lanegan.
È racchiuso insomma un intero immaginario
in queste collaborazioni e la musica del nuovo omonimo album non fa che ribadire
tali fascinazioni, con una indiscutibile qualità del songwriting (visioni dalla
strada, figure un po' metafisiche e riferimenti a luoghi concreti e dell'anima)
e arrangiamenti che richiamano lo stile di riferimento principale di cui sopra.
È forse il vero limite di una simile proposta: l'idea dunque che il groove denso
di Skills of Warfare, i riverberi di Wasteland
e quelli più sinistri e rallentati di Stepping Outside
descrivano un recinto sonoro molto riconoscibile per i DeSoto Caucus, legandoli
per sempre ai loro punti di riferimento. È tuttavia una musica così affascinante
quella ricreata da Anders Pedesern (voce principale, chitarre e synth) e compagni,
tra cui spiccano i mille ricami di Nikolaj Hayman (chitarre, basso, organo, marimba
e altre diavolerie assortite) che il loro incedere si fa spesso oscuro e sospeso,
ma si apre anche alla luce rock sixties di Just the Other
Day, all'organo soul che attraversa Lighthouse, ad una febbricitante
e disturbata Don't Fear, tra feedback, ritmiche
e stridori elettrici che ricordano il migliore Beck d'annata.
Certo, ascoltando
il mormorio un po' obliquo di Bridges of Bern e l'andamento narcolettico
di Crack in the Cover, tra vaghe rifiniture
jazzy e country di frontiera, non si può non finire con la mente alle dinamiche
create dal maestro Gelb, così come Nail in the Wall
potrebbe essere il singolo che i Calexico non azzeccano da tempo immemore. Queste
presenze aleggiano costanti sulle incisioni dell'omonimo The DeSoto Caucus,
ma non per questo le rendono meno seducenti nel loro aspetto di Americana dal
respiro "cosmico", spesso e volentieri più accattivante degli originali stessi:
un finale rallentato, fra code psichedeliche e sentori gospel in Lonesome Train
è la quintessenza di quanto descritto. A dir poco intriganti.