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notes from the underground di
Yuri Susanna (16/07/2014)
Titus
Andronicus, Cloud Nothings, The Men… Nel nostro piccolo ci proviamo, a tenerci
al passo su quanto accade nell'alternative rock americano in questi anni frammentati
e sguscianti. Sulla East Coast in particolare non sono mancati i nomi su cui valesse
la pena di puntare l'attenzione. Anche i Parquet Courts hanno casa da quelle
parti (Brooklyn, ma con radici texane), e se non vivete fuori dal mondo - cioè
dal web - il loro non è certo un nome che leggete ora per la prima volta. C'e
un certo hype intorno a questo terzo disco, un hype già alimentato dal secondo
lavoro, Light Up Gold, edito originariamente nel 2012 e ristampato l'anno scorso
dalla What's Your Rupture?, indie label della Grande Mela con le mani in pasta
nella scena post-hardcore. E qualche spezia hardcore lo si trova anche nella ricetta
dei Parquet Courts - la title track ne è buon esempio - benché l'aroma che si
respira tra questi brani sia altro.
Per fortuna oggi ci si può fare un'idea
concreta di un disco prima di leggerne la recensione: vi ricordate le fregature,
ai tempi delle riviste su carta, quando giocoforza ci si fidava di quei buontemponi
dei critici? E' una fortuna anche per noi che scriviamo, perché se dovessimo cercare
di raccontarvi la musica dei Parquet Courts "al buio" (per così dire) avremmo
qualche difficoltà. Certo, ce la potremmo cavare spiegandovi come le canzoni di
Sunbathing Animal siano un distillato degli ultimi trentacinque anni di
rock underground, bianco e (in prevalenza) metropolitano. Ma così faremmo un pessimo
servizio alla proposta della band. Intendiamoci, nessuno nega che abbiamo a che
fare, in ordine sparso, con le chitarre spigolose dei Television (Bodies
Made Of), le melodie decentrate dei Pavement (Dear
Ramona), la tensione portata al punto di implosione dei primi Strokes
(What Color is Blood). E neanche vogliamo
trascurare certi grumi di psichedelia post-punk (Raw Milk, dalle parti
degli Screaming Trees periodo SST), e una spolverata di Paisley Underground (She's
Rolling).
Sarebbe poi difficile ignorare l'angolarità di marca
Wire (Vienna II), o il deragliamento ritmico da boogie postindustriale
che li porta a incrociare per strada più di una volta (Black
and White, Always Back in Town) i Fall di Mark E. Smith (ma
anche i Pere Ubu, se vogliamo restare in casa). In questo modo avremo compilato
il nostro bel catalogo di debiti e influenze, più o meno esaustivo, più o meno
utile e a segno. Mancherebbe però ancora un ingrediente fondamentale, che è poi
quello che rende arduo tracciare i contorni della musica dei Parquet Courts, al
di là della mappatura del loro stile. E' qualcosa che ha a che fare con l'interpretazione,
la dinamica contratta e fremente con cui incedono le canzoni, scosse da una vibrazione
inquieta, barcollando sul filo del rasoio. Neanche la dilatazione dei tempi e
la maggiore durata dei brani hanno modificato quest'aspetto. Su Light Up Gold
stavano pigiate 15 canzoni in 33 minuti, qua ne troviamo 13 in 46 minuti: c'è
la volontà di ricercare soluzioni più elaborate, di allargare le prospettive.
Ma la sostanza non è cambiata: ogni nota di Sunbathing Animal sembra suonata con
l'ostinata angoscia di chi ha una lama puntata alla giugulare.