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desert blues di
Fabio Cerbone (16/03/2015)
Al
tempo stesso uno degli album più strutturati, diremmo "classici" del suo catalogo
e uno dei più ambiziosi per collaborazioni e sessioni di studio, Heavy Love
è la raccolta che potrebbe portare il nome di Duke Garwood fuori dal cono
d'ombra dell'underground in cui ha operato per una decina d'anni. A dire il vero
ci aveva già pensato l'amicizia artistica con Mark Lanegan a imporre la figura
del chitarrista inglese presso il grande pubblico rock: prima la presenza in Blues
Funeral, quindi la scrittura a quattro mani di Black Pudding e i tour spalla a
spalla. Una simbiosi musicale che traspare evidentemente dalle note di questo
Heavy Love, in fondo il disco che Lanegan non è più risucito o non ha più voluto
incidere. Se dunque avete storto il naso di fronte alle indecisioni e alle giravolte
tra new wave ed elettronica del più recente catalogo dell'ex Screaming Trees,
potrete assaporare nella densa coltre blues desertica di Sometimes,
nel mantra della stessa Heavy Love o nelle
spirali chitarristiche dilatate di Burning Seas quegli elementi che hanno
reso affascinanti i viaggi tra radici folk blues e psichedelia del citato Lanegan.
Anche la voce cupa e il portamento di Garwood rimandano prepotentemente
al suo alter ego (Disco Lights esprime una
somiglianza quasi sconcertante), anche se va subito sgombrato il campo dalla sensazione
di una mera fotocopia artistica. È troppo ingombrante la personalità del chitarrista
e dell'interprete per ridurre Duke Garwood a un buon imitatore. D'altronde la
sua storia integerrima di ricerca musicale parla chiaro: dai contributi nei progetti
Archie Bronson Outfit e persino al fianco degli Orb, fino allo sperimentalismo
dei Land nonché alle sue numerose pubblicazioni soliste (cinque, senza contare
ep sparsi), Garwood ha cavalcato tradizione e modernità, con uno sguardo all'avanguardia,
trovando oggi la formula più congeniale in questi dieci episodi di "blues
astrale".
Sia ben inteso: qui le "dodici battute" canoniche sono
bandite e se piedi e gambe affondano nel fango del Delta, il concetto di blues
è da intendersi nel senso più lato possibile, quasi metafisico del termine. Ricorda
non poco un personaggio come il compianto Chris Whitley il nostro Duke Garwood
e il suo approccio al linguaggio si sporca così di pulsioni folk psichedeliche
(la strepitosa Suppertime in Hell), di orizzonti
liquidi e nebulosi (Honey in the Ear), dove leggeri tappeti di tastiere
(Alain Johannes dai Queens of the Stone Age) distendono la melodia (Roses)
in una lunga sequenza di invocazioni e litanie, persino di sinistri rumori e feedback
(la chiusura epica di Hawaiian Death Song).
Dalla struttura tanto affascinante quanto lugubre, Heavy Love è un disco che chiede
di essere abbracciato nei suoi anfratti più reconditi, non fa sconti all'ascolto,
soffre forse di una struttura un po' rigida ma trascina la visione musicale di
Garwood tra deserti, polvere e desolazione. La sua gravosa atmosfera è anche la
sua forza: una delle sorprese di questa primavera 2015.