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cosmic pop music di
Fabio Cerbone (16/10/2018)
C'est
La Vie, afferma con leggerezza e distacco Matthew Houck, in arte Phosphorescent.
E la nuova "filosofia di vita" che accompagna il ritorno sulle scene,
a ben cinque anni di distanza dall'affermazione artistica di Muchacho,
produce una colonna sonora più docile, melodiosa e pop rispetto ai luccicanti
contrasti del predecessore. Punto di svolta, evidentemente, è stato il cambio
di rotta personale di Houck, che fra un tour e l'altro e il progetto celebrativo
Live At The Music Hall ha costruito il suo riparo sicuro, trasferendosi in via
definitiva da New York a Nashville, dove si è innamorato, ha messo su famiglia
e con due figli piccoli a gironzolare attorno, ha cercato il suo angolo di riposo.
Lo ha trovato nelle mura del Spirit Sounds Studio, luogo di registrazione casalingo
che ha accolto le nuove canzoni di C'est la Vie, una sorta di compromesso
e di scissione fra il passato e il presente, fra qualche strascico delle conquiste
ottenute con il country dai sapori cosmici di Here's To Taking It Easy, il suo
lavoro più "tradizionale" sino ad oggi, e gli episodi più sperimentali del suddetto
Muchacho.
Proprio di questi ultimi, e in particolare delle intuizioni
così accattivanti di un brano come Song for Zula o di certe svagate cantilene
elettroniche come Ride On/Right On, sembra essere figlio l'album in esame,
fino all'estremo. Tessiture di sintetizzatori e piano (Jo Schornikow), voci melliflue
e un tappeto di pedal steel (Ricky Ray Jackson) si distendono sulle melodie languide
e i ritmi vaporosi di queste composizioni. Le quali, guarda caso, parlano di famiglia,
di affetti, senza nascondere zone buie e inciampi, ma con una consapevolezza e
armonia che rendono C'est la Vie una raccolta a volte troppo compiaciuta, impalpabile.
La scelta di aprire e chiudere il percorso, come già avveniva in Muchacho, con
un'accoppiata di invocazioni da stralunato gospel interstellare (Black Moon/Silver
Waves e la speculare Black Waves/Silver Moon), pare una forzatura più
che un richiamo, ma è quello che scorre nel mezzo a non reggere sempre lo stupore
che emergeva in passato.
Lo scandire carezzevole del synth in C'est
La Vie No.2 lascia senzasioni di dejà vù, mentre i sobbalzi pop con vaghi
sapori caraibici di New Birth in New England
sprizzeranno pure la gioia familiare di Phosphorescent, ma risultano davvero lievissimi.
Il walzer di There from Here mantiene questo equilibrio posticcio, e per
approdare a qualche scossa psichedelica degna della produzione passata occorre
attendere l'incalzante arrangiamento di Around the Horn.
Fuoco di paglia, subito arrestato dai giochi vocali (con tanto di abusato effetto
vocoder) e da un linguaggio pop rock dilatato e ripetitivo che alterna rintocchi
di elettronica e passaggi corali femminili in Christmas Down Under. La
dedica affettuosa di My Beautiful Boy rispolvera
quell'incantata forma di ballad a cui Phosphorescent pare essersi votato con convinzione
da uomo maturo, un piano che accompagna una musicalità sbarazzina e che per fortuna
si fa più intenso nel portamento di These Rocks,
forse il momento più elegante ed estatico di una raccolta che scalda meno il cuore
rispetto al passato.