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alternative rocks!
di Gianuario Rivelli (21/05/2019)
Nel 2014 una manciata di
musicisti brutti e sporchi (ma tutt’altro che cattivi) decise di unirsi
in un supergruppo dell’alternative rock, per dimostrare a tutti che questi
puzzle di pezzi provenienti da diverse scatole possono partorire musica
vera e non solo fuochi fatui di progetti nati stanchi e buoni solo per
qualche copertina. Nessun filthy friend ha un nome che gode di
fama planetaria (in realtà uno sì, considerando il discreto gruppo di
cui ha fatto parte per tre decadi) ma tutti possono mettere sul piatto
una fame atavica di musica, la fregola che se potessero essere ubiqui
suonerebbero in due posti contemporaneamente. I convenuti: Corin Tucker
(front-woman delle Sleater-Kinney) a cantare, Peter Buck (R.E.M.) a imbracciare
la chitarra con il supporto di Kurt Bloch alla ritmica (Fastbacks e Minus
5), Scott McCaughey (Young Fresh Fellows, Minus 5, ma anche l’ultima fase
dei R.E.M.) a suonare tutto il resto e ad accendere le sue lampadine.
L’ex Nirvana Krist Novoselic e il batterista Bill Rieflin nel frattempo
hanno abbandonato ed ora a pestare sui tamburi c’è l’ottima Linda Pitmon
(spesso al fianco di Steve Wynn).
Laddove l’esordio Invitation rimaneva un po’ a metà del guado,
questo Emerald Valley (la valle “bellissima, verde e rigogliosa”
dell’Oregon dove la Tucker è cresciuta) convince appieno, con punte di
entusiasmo sinceramente inattese. Il piatto alternative rock cucinato
dai suddetti gourmet, con ganci melodici che colpiscono duro il mento
dell’ascoltatore e una voce carismatica, cresce ascolto dopo ascolto rivelando
dieci brani eterogenei, pieni di sfumature, con niente da buttare. Con
il secondo disco, i nostri dichiarano di fare sul serio e che, evidentemente,
non si è trattato di un incontro estemporaneo. Nulla di rivoluzionario,
tutto più o meno già sentito prima, ma avercene di canzoni come
Last Chance County in cui Tucker torna a indossare il vestito
da riot girl o l’irresistibile Only Lovers Are Broken, pezzo che
placa gli animi tormentati delle vedove dei R.E.M. dei primissimi album.
Il ritornello squarcia implacabile le trame chitarristiche rallentate
e avvolgenti di Pipeline e The Elliott, entrambe (come del
resto la title track, ammantata di fiera classicità indie rock), incentrate
su tematiche ambientaliste. La psichedelia subliminale e il nitore melodico
di One Flew East non ti lasciano facilmente,
come, per altri motivi, fanno anche il lo-fi e le chitarre imbizzarrite
di una November Man che sembra uscire dai recessi del Paisley Underground.
Persino la scivolosa prova della ballata malinconica finale (Hey
Lacey) viene superata di slancio ed allora è chiaro che persino
i supergruppi possono funzionare e i veterani possono suonare più freschi
dei ragazzini. Emerald Valley spezza i luoghi comuni e se ne frega
delle mode: è semplicemente ottima musica da non lasciarsi scappare. Punto.