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In Berlin, by the wall...
di Nicola Gervasini (30/04/2019)
Non è facile introdurre qualcuno
oggi alla musica dei Brian Jonestown Massacre, band ormai giunta
al diciottesimo disco (se non ho sbagliato i conti, naturalmente). La
sigla rappresenta ormai di fatto il leader Anton Newcombe, unico sempre
presente fin dalle cassette registrate nei primissimi anni 90, con cambi
di formazione continui a seconda dell’instabile umore del padrone di casa.
Una sorta di vate della psichedelia in ritardo di cinquant'anni, e il
nome della band (dedicato a Brian Jones, con riferimento però al massacro
di Jonestown del 1978), così come i titoli di alcuni loro album (Who Killed
Sgt. Pepper?, Their Satanic Majesties' Second Request, My Bloody Underground)
dicono già molto dello spirito che anima la band. La quale, dopo una carriera
copiosa in termini di album, sembra essere arrivata a cercare una svolta,
direi proprio una ripartenza, simboleggiata dal fatto di non aver dato
un titolo al nuovo album come si fa solitamente con gli esordi.
Non so quanto i fan di vecchia data apprezzeranno, Newcombe infatti opera
una sorta di normalizzazione del loro sound per affrontare il classico
disco all’insegna del “facciamo un riassunto di quello che abbiamo fatto
fino ad oggi”, operazione che prima o poi tocca a tutti. Suono grezzo
e diretto quello scelto, sempre basato su fidi collaboratori come Joel
Gione e il tuttofare Ricky Maymi, unici sopravvissuti al cambio di residenza
del padrone di casa, che ormai vive stabilmente a Berlino. Siamo a di
fronte ad un album che oggi suona come un vecchio recupero dell’alternative
rock dei primi anni 90, con l’up-tempo alt-rock quasi radiofonico Drained
ad aprire le danze, prima di una Tombes Oublieèes che potrebbe
essere quello che avrebbero fatto i Velvet Underground in era shoegaze,
con l’eterea voce di Rike Bienert a giocare a fare una Nico in francese.
My Mind Is Filled With Stuff è invece uno strumentale infarcito
di organi lisergici e chitarre fuzz che fa capire bene quale sia la roba
usata per riempire la mente del titolo, mentre Cannot Be Saved
è un indie-rock abbastanza classico e se vogliamo ormai banale, come anche
A Word.
Il disco però ha una impennata con la bellissima ballata We
Never Had A Chance, ipnotico giro immerso in mille riverberi
e archi che dimostra tutta la grande capacità di Newcombe di saper ancora
creare momenti evocativi. Le chitarre di Hakon Adalsteninsson dei Third
Sound risaltano invece in Too Sad To Tell You,
brano che ricorda molto i Dinosaur Jr quando riascoltano per l’ennesima
volta un album di Neil Young, mentre più confusa la cavalcata rock di
Remeber Me This, che anticipa il gran finale di What
Can I Say. 38 minuti di luci e ombre dunque, in un album che
ci fa riflettere su come certe canzoni che nei Novanta ci sembravano avanguardistiche,
oggi suonino come reazionarie e puramente classic-rock. E un posto nella
galleria del rock classico i Brian Jonestown Massacre se lo sono
ormai guadagnato, e questo album omonimo, seppur non sarà annoverato tra
i loro titoli più imprescindibili, sembra fatto apposta per capitalizzare
tanto meritato prestigio.