C’è una storia che definirei di epica moderna dietro
il nickname di Current Joys. La sigla infatti appartiene a Nick
Rattigan, uno dei tanti giovani che più di dieci anni fa è stato incoraggiato
a suonare e registrare dall’attento pubblico del social MySpace, probabilmente
l’unico sito che ha davvero contribuito a creare un contatto reale tra
nuovi artisti e nuovi ascoltatori in questi anni Duemila, community purtroppo
dispersa dopo breve tempo dall’avvento di social meno mirati ma più inclusivi
(oggi si tenta di resuscitarlo, ma i tempi sono purtroppo cambiati). A
partire dal 2011 Rattigan ha cominciato a registrare cambiando ogni volta
nome d’arte (i primi furono The Nicholas Project, TELE/VISIONS, ma la
lista è lunga), ma soprattutto in questi dieci anni si è lanciato anche
in altre imprese, che lo hanno visto prodigarsi come leader di una band
di “surf-punk (i Surf Curse), scrittore, regista (oltre ai suoi, ha girato
anche un video per i Girlpool), giornalista e fotografo.
Insomma, un poliedrico entusiasta dell’arte, ma anche un talento dispersivo
e non sempre abile a riordinare tante idee in un prodotto totalmente maturo.
E così questo Voyager, nono disco in carriera e quarto uscito
sotto la sigla Current Joys, non è un caso che esca dopo ben tre anni
(una eternità per i suoi ritmi) dal precedente A Different Age,
perché l’album ha tutta l’aria del salto di qualità finalmente ponderato
con calma. Non che ci sia da salutare una grande rivoluzione musicale:
questi brani affondano infatti le mani in tradizioni molto consolidate
di indie-rock anni 2000, con il pensiero che va innanzitutto agli Okkervil
River, per una certa somiglianza della voce con quella di Will Sheff,
ma anche per certi arrangiamenti, che da uno scarno folk stralunato alla
Robyn Hitchcock (The Spirit of the Curse)
cercano armonizzazioni (Dancer in the Dark)
e leziosità che quasi ricordano certe cose degli Shearwater (per rimanere
sempre nella stessa famiglia degli Okkervil River), oppure alcune soluzioni
del Damien Jurado più maturo e desideroso di vestire le proprie canzoni.
Sedici brani in 54 minuti di musica, lunghezza che quindi ancora non si
arrende ai tempi da streaming (pare che solo il 20% degli ascoltatori
vada oltre il terzo brano di un singolo disco, il che spiega l’ormai ingestibile
invasione del formato EP), che forse avrebbe avuto bisogno ancora di qualche
taglio in più per arrivare ad un lavoro veramente unitario e di ugual
intensità dall’inizio alla fine, ma in ogni caso l’opera nel complesso
non arriva mai ad annoiare. Risaltano alcuni brani come
American Honey e Altered States, ma anche i momenti
più movimentati di Naked e Money Making Machine o quelli
più genuinamente pop come Calypso, Amateur o la “paulwelleriana”
title-track, che chiude al piano un disco più che discreto.