Molti musicisti sono abituati a muoversi esclusivamente
in un ristretto ambito di pertinenza. Quasi mai accade che si allontanino
dal loro naturale campo d’azione e, anche qualora ciò si verifichi, raramente
riescono davvero a trarsi d’impaccio. Per Mark Ribot invece l’eclettismo
è il marchio distintivo, rappresentando egli il prototipo dell’artista
davvero fuori dagli schemi. Lo potremmo definire un visitatore dei suoni
del mondo, dallo spiccato gusto per l’esplorazione e, in alcuni casi,
persino per lo sviluppo filantropico, associato alla predetta costante
ricerca di ricchezze musicali. Non può quindi meravigliare il vederlo
passare con disinvoltura dalle Songs of Resistance 1942-2018, a
questo polistrutturato Hope che a sua volta riafferma questa
visione eterogenea e fluida della musica, lontana dalle mode e senza apparenti
confini e limiti temporali.
Rock, punk, jazz, noise, elettronica, funky, individuare dei linguaggi
preferenziali è impossibile, anche perché, in ognuno dei suddetti generi,
Marc non restringe affatto il piano operativo, anzi amplia la gamma di
stili (art-rock, rock sperimentale, psichedelia, free-jazz, fusion, reggae,
hip hop). Quel che è invece facilmente determinabile nella fattispecie,
è la spinta avanguardista posta a base dell’idea fondante che trova, quale
suo ovvio connotato primario, l’ineludibile vocazione del trio per l’improvvisazione.
Il collante di tutti i brani di questo quarto album dei Ceramic Dog
è, infatti, proprio da ricercare nel condiviso gusto di Marc, di Shahzad
Ismaily (basso, tastiere e produzione) e Ches Smith (batteria ed elettroniche)
per trame sonore elaborate, concettuali e, al contempo, libere. Purtroppo
la genesi dell’album, nato nel mezzo della pandemia (le prime session
nello studio “Figure 8” di Brooklyn sono del maggio 2020), ha impedito
ai membri della band di lavorare a stretto contatto, anche se c’è da dire
che queste difficoltà logistiche non hanno compromesso l’originaria impronta
live e, tanto meno, inficiato il risultato finale del progetto.
Il lavoro è ben solido e ciò sia per la visione unitaria che per le speciali
qualità tecniche dei tre, come anche per il medesimo mood con il quale
hanno sviluppato le rispettive parti. L’immanenza della morte e della
malattia, la rabbia per la gestione politica della crisi sanitaria e dei
connessi problemi relativi al surriscaldamento del pianeta, sono tutti
temi che hanno segnato la linea ed intriso l’atmosfera del disco. Marc
sentiva da tempo il bisogno di uscire allo scoperto ma è stato solo quando
ha iniziato a “trovare deprimente la depressione” che è riuscito a frantumare
paure e frustrazione ed ha deciso di tirare fuori qualcosa che parlasse
dei nostri tempi. In fondo il suo è un ritorno alla vita che prevede il
passaggio dalla rassegnazione per la triste realtà in cui sono costretti
a muoversi gran parte degli artisti e dalla noia per un’esistenza sbiadita,
narrata dallo slow-core ipnotico e Velvettiano di B-Flat
Ontology (“la canzone più deprimente mai scritta”), alla voglia
di ridicolizzare la politica e sovvertire l’ordine delle cose, scandita,
al ritmo di un poetry slam, dall’anarchica The Activist. In questa
prospettiva persino il folk psichedelico, reinterpretato in chiave jazz,
di Wear Your Love Like Heaven, unica
cover del disco estrapolata dal songbook di Donovan o il divertissement
di Nickelodeon con tanto di citazione, tutt’altro che casuale,
di Tomorrow Never Knows dei Beatles, hanno una logica stringente.
Tutti ottimi episodi anche se, a ben guardare, il trittico composto da
They Met in the Middle, pezzo molto
vicino alle cose di John Zorn e gli strumentali scenografici The Long
Goodbye e Maple Leaf Rage, è forse la parte più stimolante
dell’album. Per storia, per idee, per classe Marc Ribot è e resta imprescindibile.