Condividi
     
 

Marc Ribot/ Ceramic Dog
Hope
[Enja & Yellowbird records 2021]

Sulla rete: marcribot.com

File Under: avanguardia rock e dintorni


di Domenico Grio (08/07/2021)

Molti musicisti sono abituati a muoversi esclusivamente in un ristretto ambito di pertinenza. Quasi mai accade che si allontanino dal loro naturale campo d’azione e, anche qualora ciò si verifichi, raramente riescono davvero a trarsi d’impaccio. Per Mark Ribot invece l’eclettismo è il marchio distintivo, rappresentando egli il prototipo dell’artista davvero fuori dagli schemi. Lo potremmo definire un visitatore dei suoni del mondo, dallo spiccato gusto per l’esplorazione e, in alcuni casi, persino per lo sviluppo filantropico, associato alla predetta costante ricerca di ricchezze musicali. Non può quindi meravigliare il vederlo passare con disinvoltura dalle Songs of Resistance 1942-2018, a questo polistrutturato Hope che a sua volta riafferma questa visione eterogenea e fluida della musica, lontana dalle mode e senza apparenti confini e limiti temporali.

Rock, punk, jazz, noise, elettronica, funky, individuare dei linguaggi preferenziali è impossibile, anche perché, in ognuno dei suddetti generi, Marc non restringe affatto il piano operativo, anzi amplia la gamma di stili (art-rock, rock sperimentale, psichedelia, free-jazz, fusion, reggae, hip hop). Quel che è invece facilmente determinabile nella fattispecie, è la spinta avanguardista posta a base dell’idea fondante che trova, quale suo ovvio connotato primario, l’ineludibile vocazione del trio per l’improvvisazione. Il collante di tutti i brani di questo quarto album dei Ceramic Dog è, infatti, proprio da ricercare nel condiviso gusto di Marc, di Shahzad Ismaily (basso, tastiere e produzione) e Ches Smith (batteria ed elettroniche) per trame sonore elaborate, concettuali e, al contempo, libere. Purtroppo la genesi dell’album, nato nel mezzo della pandemia (le prime session nello studio “Figure 8” di Brooklyn sono del maggio 2020), ha impedito ai membri della band di lavorare a stretto contatto, anche se c’è da dire che queste difficoltà logistiche non hanno compromesso l’originaria impronta live e, tanto meno, inficiato il risultato finale del progetto.

Il lavoro è ben solido e ciò sia per la visione unitaria che per le speciali qualità tecniche dei tre, come anche per il medesimo mood con il quale hanno sviluppato le rispettive parti. L’immanenza della morte e della malattia, la rabbia per la gestione politica della crisi sanitaria e dei connessi problemi relativi al surriscaldamento del pianeta, sono tutti temi che hanno segnato la linea ed intriso l’atmosfera del disco. Marc sentiva da tempo il bisogno di uscire allo scoperto ma è stato solo quando ha iniziato a “trovare deprimente la depressione” che è riuscito a frantumare paure e frustrazione ed ha deciso di tirare fuori qualcosa che parlasse dei nostri tempi. In fondo il suo è un ritorno alla vita che prevede il passaggio dalla rassegnazione per la triste realtà in cui sono costretti a muoversi gran parte degli artisti e dalla noia per un’esistenza sbiadita, narrata dallo slow-core ipnotico e Velvettiano di B-Flat Ontology (“la canzone più deprimente mai scritta”), alla voglia di ridicolizzare la politica e sovvertire l’ordine delle cose, scandita, al ritmo di un poetry slam, dall’anarchica The Activist. In questa prospettiva persino il folk psichedelico, reinterpretato in chiave jazz, di Wear Your Love Like Heaven, unica cover del disco estrapolata dal songbook di Donovan o il divertissement di Nickelodeon con tanto di citazione, tutt’altro che casuale, di Tomorrow Never Knows dei Beatles, hanno una logica stringente.

Tutti ottimi episodi anche se, a ben guardare, il trittico composto da They Met in the Middle, pezzo molto vicino alle cose di John Zorn e gli strumentali scenografici The Long Goodbye e Maple Leaf Rage, è forse la parte più stimolante dell’album. Per storia, per idee, per classe Marc Ribot è e resta imprescindibile.


    


<Credits>