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Indigo Sparke
Echo
[Sacred Bones 2021]

Sulla rete: indigosparke.com

File Under: spare indie-folk


di Fabio Cerbone (05/03/2021)

Un destino scritto nel nome, affascinante e curioso, che i genitori, entrambi musicisti, le hanno affibbiato. Indigo Sparke, giovane sonwgriter australiana proveniente dall’area di Sidney, nasce in una famiglia toccata dall’amore per il jazz: da qui l’idea di chiamare la figlia ispirandosi al classico di Duke Ellington, Moon Indigo. L’educazione musicale della ragazza prende però strade più consone al linguaggio folk, assimilando l’anima fragile di artisti come Joni Mitchell (quasi inevitabile quanto abusato l’accostamento, quando si finisce in questi territori) e Neil Young, cominciando ad esibirsi durante gli anni del liceo, anche come attrice. La rivelazione internazionale arriva grazie alla possibilità di fare da spalla ai Big Theif nel lorotour australiano, nome di punta dell’indie rock più sensibile di questi anni: nasce un’intesa artistica con Adrianne Lenker, leader e voce di questi ultimi, che invita Indigo Sparke in America, cogliendo l’occasione di esibirsi al famoso South by Southwest di Austin e anche di farsi conoscere sul web.

L’etichetta newyorchese Sacred Bones non si lascia sfuggire l’opportunità di farle incidere il vero e proprio esordio - preceduto soltanto da un ep, Night Bloom, nel 2016 - sotto le cure della stessa Adrianne Lenker e con la co-produzione di Andrew Sarlo (Big Thief, Bon Iver). Echo offre nove stralci di un indie folk rarefatto dove voce e chitarra (spesso elettrica, in antitesi alla più prevedibile veste acustica) sono l’asse portante dell’intero album, costruito precariamente su pochissime pennellate, scarno e ridotto all’essenza dei sussurri di Indigo, novella Hope Sandoval delle terre oceaniche. Una ritmica appena accenata nell’apertura di Colour Blind, dal docile caracollare ai confini di un cuore country, un abbozzo di pianoforte della conclusiva Everything Everything, qualche linea di basso, seconde voci e drappi sonori distanti, ma l’anima di Echo sta tutta racchiusa nelle confessioni della protagonista.

Non siamo concettualemente distanti dal recente parto solista della stessa Adrianne Lenker, e come in quella occasione occorre ribadire che Echo richiede una simile disposizione d’animo, musica per cuori infranti e isolati. Definito come una raccolta di “odi intime e profonde sulla morte, il decadimento e l'irrequieto desiderio di voler appartenere a qualcosa di più grande”, il disco fluttua sospeso sulle melodie cagionevoli di Undone e Wolf, innalza lodi in Carnival e si nasconde tra il recitato di Dog Bark Echo, vero e proprio spettro di canzone, mentre Bad Dreams arpeggia su un’armoniosa ballata di chiara ispirazione folk inglese, e Golden Age accenna una rabbia contenuta. Accordi scheletrici, una innegabile reiterazione di certi schemi compositivi, qualche volta fin troppo essenziali, Echo è un album che esercita un fascino indiscutibile, sebbene la sua formula si esaurisca in se stessa, lasciando in sospeso il futuro di questa autrice.


    


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