Vent’anni fa, quando l’album Tallahassee
cominciò a far circolare più largamente il nome dei Mountain Goats
come nuovi guru dell'indie-folk (e qui il termine “indie” era ancora davvero
legato al suo significato originario, tanto che nella loro autoctona produzione,
Tallahassee era già il loro settimo album), mai ci saremmo aspettati
di sentirli oggi uscire con un disco come Bleed Out. Teoricamente
il loro ventunesimo album, considerando solo quelli in studio e tralasciando
live, demo-albums e una pletora di EP che porterebbero il conto a più
di cinquanta titoli, e questo dà l’idea di come John Darnielle e Peter
Hughes (il secondo imbarcato proprio nel 2002) non si siano mai curati
di dare una organizzazione organica alla loro discografia.
Qualcosa però è cambiato, sarà la maturità o il doversi riadattare ai
tempi, ma già come nel precedente (e bellissimo) Dark
in Here, qui si respira una volontà di uscire dal proprio guscio
e rendere più abbordabile la propria proposta musicale. I brani di
Bleed Out sono ben prodotti e ben suonati, e nessuno di questi farebbe
scappare ascoltatori se suonati anche da una radio mainstream, e questa
è la prima piacevole novità se si considera che comunque conservano il
tocco e il marchio della sigla di casa. Stavolta poi gioca anche a favore
di una certa “vendibilità” (sempre che il termine abbia senso in tempi
in cui le classifiche si stilano sui click e non sui Cd) il concept del
disco, un lungo omaggio ai film d’azione degli anni 60 e 70 che arriva
a toccare anche i poliziotteschi nostrani, come si evince dalla copertina,
che pare una locandina di un film di Fernando Di Leo.
I complimenti vanno anche alla produzione di Alicia Bognanno, mente delle
Bully, che ha trovato il modo di rendere energiche alcune canzoni, comunque
non sempre facilissime da maneggiare, come la lunga Hostages
e Extraction Point. Per il resto il tema trattato porta la band
(che è completata Matt Douglas e dal batterista e scrittore Jon Wurster,
ex Superchunk spesso al servizio anche di Bob Mould) a produrre l’album
più spensierato e meno introspettivo della loro discografia, e questo
potrebbe anche non piacere alla loro storica fan-base, ma la buona notizia
è che comunque il risultato pare coerente con la loro storia, anche se
mancano i pugni in pancia emotivi assestati dal disco precedente, che
resta forse il loro titolo migliore come equilibrio tra le loro anime
indipendenti e la necessità di riadattare il loro suono. In ogni caso
non so quante canzoni esistano dedicate agli stunt-men dei film d’azione
(Training Montage) e alle intime motivazioni
del loro continuo affronto alla morte, simbolo di una esistenza al limite
che fa da contraltare al pericolo falso e illusorio che animava un loro
precedente concept-album che dedicarono al mondo del Wrestling (Beat
The Champ del 2015).
Dopo quasi trent’anni di onorata carriera nelle retrovie, è forse tempo
anche per i Mountain Goats di raccogliere qualche consenso in più, e Bleed
Out pare l’occasione giusta.