Impossibile non volere bene ai cinque ragazzi dalla
faccia arguta e sbarazzina che si celano dietro la sigla Rolling Blackouts
Coastal Fever (d’ora in poi, per comodità, RBCF). In fondo, sono i
nipoti (o i fratelli minori: dipende dal vostro stato anagrafico) che
tutti vorremmo, quelli che, invece di trascorrere i pomeriggi oziando
davanti a una Play Station, preferiscono spulciare tra la collezione di
dischi dei padri o degli zii, per cercare qualche vecchio album degli
Echo & the Bunnymen o dei Go-Betweens. Ovviamente non sappiamo come Joe
White, Fran Keany, Tom Russo e gli altri della band vivessero le loro
adolescenze in quel di Melbourne, però, visti i risultati, non è del tutto
improbabile che abbiano davvero mandato a memoria i dischi dei loro padri.
Fin dagli esordi con una serie di ep autoprodotti nel 2015 (e ancor di
più con la firma per la Sub Pop e il primo
album nel 2018) è stato chiaro che i RBCF sono nati con l’intenzione
di avviare un dialogo con certo passato (più o meno) prossimo del rock,
per servirlo con ludica ma anche lucida determinazione alle giovani generazioni
dell’indie rock contemporaneo.
Arrivati all’appuntamento con quello che Billy Bragg chiamava il difficile
terzo disco, è interessante capire come il suono di questi neorevivalisti
innamorati del tintinnio delle chitarre e dei ritmi quadrati del post-punk
britannico (ma anche del surf rock e del power pop americani, rivisti
ovviamente in chiave “aussie”) possa evolversi e mantenere l’interesse
del pubblico. Non ci sono grandi rivoluzioni in Endless Rooms,
a dire il vero: le note stampa raccontano di come sia cambiato il metodo
compositivo della band, abituata a lavorare in modo affiatato e a ricavare
idee e spunti dall’abitudine di improvvisare insieme. Il lockdown ha portato
ciascuno dei tre songwriter a comporre in solitudine e solo in un secondo
momento a confrontare quanto prodotto con gli altri. Il risultato non
modifica di molto quello che siamo abituati a sentire in un disco dei
RBCF: le chitarre sono sempre lì a ricamare una fitta trama elettrica
di arpeggi e assoli tintinnanti su un ritmo che passa da cadenze più sciolte
e lisergiche (Caught Low e Open Up Your Window) a passaggi
sincopati e veloci (My Echo, Saw You at the Eastern Beach),
mentre le voci si inseguono e armonizzano con acerba complicità in un
mare di riverberi.
Il modernariato anni ‘80 è forse un po’ più in evidenza (certe tastierine,
che compaiono per esempio nel singolo The Way It Shatters o in
Blue Eye Lake, o l’attacco di Tidal Wave, che può ricordare
My Sharona dei Knack) ma non incide più di tanto nell’economia complessiva
del sound della band. Le canzoni sono ancora ben costruite ed eseguite
con passione e il disco tiene botta quasi fino alla fine (forse un paio
di brani in meno e l’impatto sarebbe stato maggiore), tra echi dei Triffids
e ammiccamenti ai Church. Insomma, i RBCF hanno scelto di rimandare il
salto verso la maturità (le liriche, solo quelle, sono un po’ più serie
del passato, con riferimenti alla pandemia, alle politiche migratorie
e ai grandi incendi che hanno devastato l’Australia nell’anno passato)
e di rimanere ancora a trastullarsi nel loro universo di revivalismo innocente
e sornione. Niente di male, in fondo a noi piacciono proprio così.