Non ne usciremo presto dalle conseguenze dei tre
anni di pandemia, o quanto meno non dalle ripercussioni sull’anima delle
persone, tanto più di quegli artisti che per natura restano più sensibili
a tradurre certi sentimenti in musica. Lo fa anche Fenne Lily,
cantautrice di origini inglesi divisa fra la sua casa natale nel Dorset
e la nuova avventura americana (stabilitasi a New York), il cui stile
sussurrato e fragile nel canto rappresenta la quintessenza di quell’indie
folk che volge lo sguardo al mondo interiore, esorcizzando relazioni,
amori, solitudini e incomprensioni con ballate dai toni ovattati.
Il terzo album di Fenne - esordio a poco più di vent’anni con On Hold
(2018) e seguito fortunato con Breach (2020), album “americano”
prodotto con calibri da novanta come Brian Deck e Steve Albini in quel
di Chicago - segue un percorso di lenta ma costante costruzione del sound
intorno alla sua vocalità così eterea, dalla matrice folk, verso spunti
più elettrici, persino cadenze Americana e alternative country, probabilmente
maturate dalla nuova collaborazione con l’attuale produttore Brad Cook
e il fratello Phil, che hanno contribuito alle incisioni (in gran parte
dal vivo) nei loro studi in North Carolina. Ma è la stessa Fenne Lilly
a dichiarare un’intenzione più “roots” nell’approccio compositivo, citando
il compianto Ronnie Lane e il suo progetto Slim Chance, in particolare
con la canzone Roll On Babe, come punto di partenza per delineare
lo stile compositivo di Big Picture.
C’è del vero, pur prendendo questi accostamenti sempre come leggere “forzature”:
Fenne Lily appartiene a un’altra generazione, quella ascrivibile alle
varie Laura Marling o Indigo Sparke e Le Ren, ma adatta il mood di queste
vulnerabili confessioni di coppia, nate proprio in quel periodo turbolento
e appartato della pandemia, a spunti che si dividono tra vaporose leggerezze
indie-americana e tenui melodie pop, come è possibile apprezzare in Dawnclored
Horse (ispirata dalla lettura di una poesia di Richard Brautigan)
e Lights Light Up, mentre l’apertura di Map of Japan ammicca
a un giro di accordi molto familiare, con una latente attitudine rock.
È apprezzabile soprattutto il lavoro di paziente miniatura che band e
produttore costruiscono intorno alle liriche di Fenne Lily, dal quale
emergono le limpide sottolinature delle chitarre di Joe Sherrin in 2+2
e Pick, quest’ultima tra le più vivaci
con quel suo sobbalzare alla Wilco, sebbene sia proprio l’interpretazione
della Lilly a volte a frenare un po’ l’entusiasmo: il candore di Superglued
e Half Finished, la rarefazione di Henry, fino alla replica
di certi schemi da country da cameretta in Red Deer Day finiscono
per uniformare troppo queste canzoni, un continuo bisbigliare di sentimenti
e dubbi che sulla distanza sembra riflettere esattamente quella campana
di vetro ritratta in copertina, opera dell’artista Thomas Doyle.