Del fenomeno grunge che ha rappresentato l’ultimo
autentico scossone generazionale e che ha monopolizzato per circa un decennio
la scena rock planetaria, oggi è rimasta appena qualche fiammella, che
si ostina a crepitare sotto quella cenere cosparsa lungo un nostalgico
e dolente sentiero disseminato di croci. Kurt Cobain, Layne Staley, Andrew
Wood, Scott Weiland, Chris Cornell, Mark Lanegan sono passati tutti a
miglior vita assieme ai loro progetti, ma di quella meravigliosa stagione
è sopravvissuta comunque la palpabile eredità, musicale e persino ideologica,
di questa nutrita squadra di ombrosi neoromantici poeti della fragilità
anarcoide, disagiati, disillusi e molto rumorosi.
Questa è, in linea di massima, la situazione ad oltre 35 anni di distanza
dalla nascita del movimento, poi c’è un’altra storia, quella dei Mudhoney.
Nati da una costola dei Green River, veri antesignani del genere, la band
di Mark Arm ha sempre viaggiato su coordinate oltranziste, simboleggiando
il modello punk garage del Seattle sound e ha superato di slancio l’impatto
con il nuovo secolo, arrivando ai giorni nostri senza avvertire cedimenti
di sorta e preservando, se si eccettua la sostituzione di Matt Lukin risalente
al 2001, la line up originale (attualmente la band è composta da Mark
alla voce, Steve Turner alla chitarra, Dan Peters alla batteria e Guy
Maddison al basso).
È vero, tra i sopravvissuti potremmo anche annoverare i Pearl Jam che,
entrati in scena nella seconda ondata, continuano a rimanere felicemente
a galla pur avendo, a nostro modesto parere, ben poco che li tenga agganciati
al primigenio ruolo e senza avere la forza (e forse neppure la voglia)
per riuscire a proporre o replicare, al pari dei Mudhoney, lo spirito
corrosivo che alimentava all’epoca soprattutto le produzioni della Sub
Pop, la label fondata nel 1986 da Bruce Pavitt, alla quale inevitabilmente
si deve associare l’era grunge e che, guarda caso, è la stessa che ha
dato alle stampe anche questo Plastic Eternity. Il disco
altro non è se non l’ennesima prova maiuscola di questi immarcescibili
veterani, che con il passare del tempo sono riusciti a mantenere un alto
tasso di acidità, associandolo a dei riff sempre molto efficaci e a un
gusto meravigliosamente retrò, senza dubbio affinato dall’esperienza e
dalla capacità di far tesoro dei loro ottimi ascolti.
Giusto per capirci, se Souvenir of My Trip, brano d’apertura, è
un tuffo nel passato, l’ennesimo manifesto del sound dei Mudhoney, l’avanzare
devastante e concentrico di Almost Everything
evoca invece, in versione incattivita, gli Screaming Trees di Dust,
Cascades of Crap è roba da prima era psichedelica, Move Under
e Here Comes the Flood sono due inni hardcore in confezione
pregiata, One or Two ha l’enfasi ombrosa
dei lavori dei Soundgarden, mentre Flush the Fascists, Cry Me
an Atmospheric River e Little Dogs sembrano scritte a quattro
mani con Jon Spencer. Insomma, lo spettro, come del resto già intravisto
negli altri album della band prodotti nel nuovo millennio, è abbastanza
ampio. Forse qui, rispetto per esempio a un disco come Vanishing Point,
altra vetta dei Mudhoney 2.0, viaggiamo relativamente meno nei sixties
e più a cavallo tra i settanta e gli ottanta, ritroviamo magari più Black
Flag che 13th Floor Elevators, ma ciò che non muta mai, costituendo il
comune denominatore di tutti i lavori della band, è il senso di smarrimento
e la rabbia che nutre i loro testi, nonché i toni cupi, sporchi e virulenti
che avvolgono ogni singola traccia, elementi tutti alla base dell’espressività
sonora dei new hippy della generazione X.
Plastic Eternity è un gran disco che oseremmo definire imprescindibile,
nella misura in cui oggi i Mudhoney sono imprescindibili, incarnando,
senza minimamente indugiare in nostalgiche rivisitazioni, l’autentico
spirito del rock’n’roll e rappresentando, con la loro integrità e la loro
passione, un mondo che sia pur agonizzante, non pare affatto disposto
a soccombere.