Cerco tra i miei appannati
neuroni tracce mnemoniche di precedenti recensioni relative all’opera
di Diane Birch, convinto di non poter dimenticare così impunemente
un, ehm, viso come quello immortalato sulla copertina del primo Bible
Belt (2009), ma non trovo nulla. Faccio allora mente locale, per quanto
possibile, e mi accorgo di conoscerne comunque i dischi; mi accorgo, soprattutto,
dei quindici anni passati tra quel debutto e questo nuovo, più o meno
quarto Flying On Abraham, in realtà il primo album vero
e proprio dopo il sin troppo eterogeneo Speak A Little Louder (2013),
perché il pur riuscitissimo NOUS — registrato in splendida solitudine
a Berlino e consegnato alla piattaforma Bandcamp nell’ormai lontano 2016
— aveva la durata, generosa ma circoscritta, di un EP.
Così tanto tempo tra un’uscita e l’altra indica, se non altro, quale cantonata
avesse preso chi, in un periodo nel quale persino figure insignificanti
come Vanessa Carlton finivano a incidere con i Counting Crows, aveva frettolosamente
schedato questa pianista del Michigan alla voce dei tanti epigoni di Elton
John sbucati all’indomani dei frammentatissimi Anni Zero. Birch, invece,
ha intrapreso una sua strada originale e particolare, è finita in Germania
e a Londra, ha di tanto in tanto caricato qualche traccia nuova sul più
artist-friendly dei portali in circolazione, e infine è riuscita a trovare
una voce unica, dove s’intrecciano, sì, reminiscenze di Tori Amos e del
noviziato di Fiona Apple (o perché no di Regina Spektor), ma dove su tutto
spiccano un’assimilazione e un magistrale aggiornamento della lezione
tra r&b, canzone d’autore e diademi pop appartenuta a Carole King.
Ecco se a Flying On Abraham, che esce quando la sua artefice ha
superato i quarant’anni (ne aveva 26 allorché la sentimmo per la prima
volta), occorresse trovare un antecedente, si potrebbe andare a colpo
sicuro citando il mitologico Tapestry (1971), anche se quello era
un capolavoro assoluto mentre questo è solo (solo?) un album la cui sostanza,
varietà di arrangiamenti, ispirazione e tenuta sulla lunga distanza sorprendono
in positivo. Tutte caratteristiche già evidenti nel felpato passo country-rock
dell’iniziale Wind Machine, confermate
nel sublime inchino a Joni Mitchell e Laura Nyro della bellissima Jukebox
Johnny, amplificate nel suggestivo cinemascope dalle sfumature
soul di Moto Moon, mandato in orbita nel notturno jazzy tra Donald
Fagen e Rickie Lee Jones della virtuosistica Shade.
Benché gli antefatti di Flying On Abraham vadano ricercati, come
si sarà capito, nella trasversale brillantezza pop-jazz - lontana sia
dal puro easy-listening sia da certi barocchismi fini a se stessi - della
Los Angeles dei ’70, nella sua scaletta non c’è nulla, ma proprio nulla,
di passatista o sorpassato. Ci sono, al contrario, la capacità di scrive
una ballata piano e voce come Critics Lullaby,
nella quale non ci stupiremmo di trovare, dopo l’irresistibile bridge
grazie al quale fa il suo ingresso la formazione al completo, gli Steely
Dan o i Doobie Brothers in persona, e inoltre l’arguto funkeggiare di
Boys On Canvas, la disperazione urbana della fremente Juno,
il rock & roll elettrico dell’affilata Russian Doll, le malinconie
sotterranee di una Used To Lovin’ You
al tempo stesso lancinante e sommessa.
Adatto alle ore del crepuscolo, o a quelle decisamente piccole dell’oscurità,
Flying On Abraham è stracolmo di rimandi alle notti americane dei
’70, ai momenti in cui le grandi metropoli si raggomitolavano in un’intimità
utile a esorcizzare la violenza delle strade e il deteriorarsi della scena
politica, in cerca di una sintesi - creativa se non sociologica - tra
cultura black e ricordi della nazione ritratta nei quadri di Norman Rockwell.
Pioniera di questo approccio multidimensionale fin dai suoi primi passi,
Diane Birch vi registra, ancorché per metafore sonore, la concretezza
dell’ansia, del disagio, della paura ancora oggi perduranti nel contesto
sempre più aggressivo del proprio paese. Certo, si tratta di uno schema
espressivo già portato a livelli di perfezione inviolabile da Curtis Mayfield,
o da Randy Newman. Ma fa piacere che qualcuno se ne ricordi ancora e,
per una volta, non si faccia fagocitare da quello stesso ricordo, portando
anzi in dote la freschezza e l’immaginazione di uno sguardo personale.