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Diane Birch
Flying on Abraham
[Légère 2024]

Sulla rete: dianebirch.com

File Under: So far away (again)


di Gianfranco Callieri (03/06/2024)

Cerco tra i miei appannati neuroni tracce mnemoniche di precedenti recensioni relative all’opera di Diane Birch, convinto di non poter dimenticare così impunemente un, ehm, viso come quello immortalato sulla copertina del primo Bible Belt (2009), ma non trovo nulla. Faccio allora mente locale, per quanto possibile, e mi accorgo di conoscerne comunque i dischi; mi accorgo, soprattutto, dei quindici anni passati tra quel debutto e questo nuovo, più o meno quarto Flying On Abraham, in realtà il primo album vero e proprio dopo il sin troppo eterogeneo Speak A Little Louder (2013), perché il pur riuscitissimo NOUS — registrato in splendida solitudine a Berlino e consegnato alla piattaforma Bandcamp nell’ormai lontano 2016 — aveva la durata, generosa ma circoscritta, di un EP.

Così tanto tempo tra un’uscita e l’altra indica, se non altro, quale cantonata avesse preso chi, in un periodo nel quale persino figure insignificanti come Vanessa Carlton finivano a incidere con i Counting Crows, aveva frettolosamente schedato questa pianista del Michigan alla voce dei tanti epigoni di Elton John sbucati all’indomani dei frammentatissimi Anni Zero. Birch, invece, ha intrapreso una sua strada originale e particolare, è finita in Germania e a Londra, ha di tanto in tanto caricato qualche traccia nuova sul più artist-friendly dei portali in circolazione, e infine è riuscita a trovare una voce unica, dove s’intrecciano, sì, reminiscenze di Tori Amos e del noviziato di Fiona Apple (o perché no di Regina Spektor), ma dove su tutto spiccano un’assimilazione e un magistrale aggiornamento della lezione tra r&b, canzone d’autore e diademi pop appartenuta a Carole King.

Ecco se a Flying On Abraham, che esce quando la sua artefice ha superato i quarant’anni (ne aveva 26 allorché la sentimmo per la prima volta), occorresse trovare un antecedente, si potrebbe andare a colpo sicuro citando il mitologico Tapestry (1971), anche se quello era un capolavoro assoluto mentre questo è solo (solo?) un album la cui sostanza, varietà di arrangiamenti, ispirazione e tenuta sulla lunga distanza sorprendono in positivo. Tutte caratteristiche già evidenti nel felpato passo country-rock dell’iniziale Wind Machine, confermate nel sublime inchino a Joni Mitchell e Laura Nyro della bellissima Jukebox Johnny, amplificate nel suggestivo cinemascope dalle sfumature soul di Moto Moon, mandato in orbita nel notturno jazzy tra Donald Fagen e Rickie Lee Jones della virtuosistica Shade.

Benché gli antefatti di Flying On Abraham vadano ricercati, come si sarà capito, nella trasversale brillantezza pop-jazz - lontana sia dal puro easy-listening sia da certi barocchismi fini a se stessi - della Los Angeles dei ’70, nella sua scaletta non c’è nulla, ma proprio nulla, di passatista o sorpassato. Ci sono, al contrario, la capacità di scrive una ballata piano e voce come Critics Lullaby, nella quale non ci stupiremmo di trovare, dopo l’irresistibile bridge grazie al quale fa il suo ingresso la formazione al completo, gli Steely Dan o i Doobie Brothers in persona, e inoltre l’arguto funkeggiare di Boys On Canvas, la disperazione urbana della fremente Juno, il rock & roll elettrico dell’affilata Russian Doll, le malinconie sotterranee di una Used To Lovin’ You al tempo stesso lancinante e sommessa.

Adatto alle ore del crepuscolo, o a quelle decisamente piccole dell’oscurità, Flying On Abraham è stracolmo di rimandi alle notti americane dei ’70, ai momenti in cui le grandi metropoli si raggomitolavano in un’intimità utile a esorcizzare la violenza delle strade e il deteriorarsi della scena politica, in cerca di una sintesi - creativa se non sociologica - tra cultura black e ricordi della nazione ritratta nei quadri di Norman Rockwell. Pioniera di questo approccio multidimensionale fin dai suoi primi passi, Diane Birch vi registra, ancorché per metafore sonore, la concretezza dell’ansia, del disagio, della paura ancora oggi perduranti nel contesto sempre più aggressivo del proprio paese. Certo, si tratta di uno schema espressivo già portato a livelli di perfezione inviolabile da Curtis Mayfield, o da Randy Newman. Ma fa piacere che qualcuno se ne ricordi ancora e, per una volta, non si faccia fagocitare da quello stesso ricordo, portando anzi in dote la freschezza e l’immaginazione di uno sguardo personale.


    


<Credits>