Fin dagli esordi, a metà degli anni ‘90, gli Eels
sono sempre stati, senza ombra di dubbio, la creatura di Mark Oliver Everett,
in arte E, americano classe 1963, di cui è autore, cantante, ma anche
chitarrista e tastierista. Lo dico senza voler sminuire l’apporto dei
molti validi musicisti (vedasi per esempio il batterista Butch Norton)
che hanno, più o meno lungamente, accompagnato Mark Oliver in una proficua
carriera ormai trentannale. Del resto, anche per l’ultimo lavoro, oggetto
di questa recensione, le note di copertina, così come la cartella stampa,
non danno molte informazioni in merito all’apporto dei collaboratori (i
principali risultano essere Tyson Ritter e Koool G Murder), lasciando
quindi intendere che il lavoro anche interpretativo e produttivo, oltre
alla composizione, sia stato fatto proprio da E stesso, com’è avvenuto
fin dall’album di debutto, Beautiful Freaks, capolavoro pubblicato
nel 1996 dall’allora neonata DreamWorks.
Il disco uscito all’inizio di giugno di quest’anno, intitolato semplicemente
ma efficacemente Eels Time!, si rivela essere il quindicesimo,
ma la discografia annovera anche molti live e alcune raccolte, tra le
quali vorrei segnalare quella intitolata Useless Trinkets, una
vera miniera di brani non compresi negli album della prima parte di carriera.
Mi piacerebbe includere Mark Oliver Everett nella gloriosa schiera dei
“beautiful losers” che l’America ci ha regalato da oltre mezzo secolo,
ma credo che sia un po’ ingeneroso. E’ incontrovertibile però che il nostro
sia stato profondamente segnato da una serie di tragici eventi (familiari
e non) e che presenti più di un’affinità con quegli artisti che hanno
celebrato a modo loro una sorta di estetica della sconfitta. Come questi,
anche Mark ha saputo raccontare e raccontarsi mettendo a nudo una certa
fragilità, conseguenza di un vissuto familiare molto difficile, non tanto
dal punto di visto economico, quanto per una certa tendenza alla depressione
ed all'autodistruzione.
Senza dilungarsi (sono disponibili articoli e libri che approfondiscono
episodi familiari degli Everett, cui si rimanda), vorrei solo citare i
due eventi più tragicamente determinanti per Mark Oliver. Suo padre Hugh
Everett è stato un fisico quantistico prestato professionalmente al Pentagono,
ma il cui genio è stato riconosciuto appieno solamente dopo la morte prematura
a cinquantuno anni, per un attacco di cuore, e ritrovato esanime in casa
proprio dal figlio minore, all’epoca diciannovenne. Ancor più triste la
fine della sorella maggiore di Mark, Elisabeth, sua prima fan ed incoraggiatrice
nella perseveranza di una carriera nel business musicale. A circa un mese
dall’uscita del vero esordio degli Eels, il già citato Beautiful Freak
del 1996, la trentanovenne è stata rinvenuta morta all’ennesimo tentativo
di suicidio, stavolta riuscito, dopo un lungo calvario di dipendenze,
depressione e relazioni sbagliate. L’album seguente, uscito nel 1998 ed
intitolato Electro-Shock Blues, risente ampiamente di questa tragedia
nei testi (la morte è un tema ricorrente) e nell’atmosfera, ma con un
risultato artistico altrettanto epocale quanto quello dell’esordio.
Se quest’ultimo Eels Time!, non riesce a raggiungere lo
status dei due capolavori summenzionati, però non stona affatto al cospetto
del resto della discografia, di qualità costante e di un livello medio
secondo me difficilmente raggiungibile per buona parte di molti artisti,
anche ben più celebrati. Inoltre non si possono che rimarcare la prolifica
vena compositiva e il talento autoriale di E e le sue doti di performer
dal timbro inconfondibile. Da segnalare anche la propensione ad arrangiamenti
ormai riconoscibili, ma sempre curiosi, mai ripetitivi, con dettagli che
attingono dalle più svariate tradizioni ed influenze, portando a una miscela
unica di pop, folk, indie rock e Americana.
Nello scorrere dei brani non rilevo momenti che si possano definire deboli
o, per usare un linguaggio ormai obsoleto, dei “riempitivi”. Mi sento
di segnalare, come preferenze personali, i brani Sweet
Smile e If I'm Gonna Go Anywhere,
dove mi pare ci sia una certa affinità d’intenti con Daniel Johnston (un
altro anti-eroe dell’underground americano). Se non si ravvisa alcun significativo
scostamento stilistico, c’è sicuramente una coerenza con i precedenti
album e una malinconia di fondo che resta il fil rouge che unisce la carriera
alla sua stessa odissea esistenziale. Personalmente vi ho trovato un’ulteriore
conferma del fatto che Mark Oliver Everett, in arte E, sia una figura
di rilievo ed originale del panorama indie rock internazionale e un artista
che sta meritando appieno il riconoscimento della critica e di un pubblico
sicuramente non mainstream, ma nemmeno troppo confidenziale.